Il giovane talento di Letizia Russo e di Pierpaolo Sepe approda su un testo poco conosciuto di Goldoni, sul quale viene eseguita una radicale azione di riscrittura e di parziale “modernizzazione” nella messa in scena. L’operazione, impegnativa e stimolante, risulta però compiuta solo in parte, per le motivazioni che proveremo ad esporre.
La scrittura, realizzata a partire da un lavoro praticamente ignoto al grande pubblico, lascia all’autrice la libertà di distanziarsi a piacere dal testo originale, che lo spettatore per lo più non conosce. Si può dunque immaginare che nell’intenzione autoriale il testo debba sopravvivere con una certa autonomia, non esclusivamente per scarto o per raffronto col modello goldoniano, come avverrebbe in modo inevitabile se il testo di partenza fosse più rappresentato. Dall’originaria commedia, lineare e in verità non particolarmente vivace, la Russo fa emergere un possibile sottotesto che si concentra sui rapporti di potere tra i protagonisti della vicenda: da un lato il feudatario che signoreggia sulla sua comunità, dall’altro, in chiave più moderna, il giovane legato da un rapporto quasi edipico con la madre, le cui pressioni morali e psicologiche sono il vero motore occulto della vicenda. Seguono quindi, a cascata, tutte le altre dinamiche di relazione, fino a snudare la trama di piccole tensioni e invisibili violenze come autentica essenza delle relazioni di comunità.
Ad uno stile efficacemente scabro e percussivo non sempre però corrisponde un’adeguata propulsione drammaturgica: la riflessione sul potere che corrode i rapporti individuali è abbastanza diretta e “leggibile”, né sembra investire troppo peculiarmente la contemporaneità. Arlecchino è rivisitato come compagno “impresentabile” del protagonista, una sorta di alter ego diabolico che però non lo riscatta dalla volontà opprimente della madre: se nell’epilogo goldoniano il matrimonio conciliatore ricompone gli eventi nell’alveo della morale, in questa riscrittura è solo un momento di ulteriore sopraffazione a danno del protagonista. Anche il deputato che si presenta al feudatario come “guappo” dà l'impressione di una trovata un po’ decorativa e ingenua. Il rigore e la limpidezza della scrittura si mostrano come le ragioni più interessanti del testo.
Suggestiva l’organizzazione dello spazio scenico, col disegno delle luci che in alcuni momenti trasforma potentemente il luogo dell’azione. Gli attori danno complessivamente buona prova, e tuttavia le esecuzioni individuali non sempre s’incontrano in un disegno unitario; lo spettatore riceve con qualche affanno le ineguaglianze di volume sonoro e d’intenzione dei personaggi. Splendida ad esempio la madre volitiva e sacerdotale di Monica Piseddu, che però dialoga a fatica sia col figlio, il bravo Leonardo Maddalena, sia con Pantalone, pur felicemente interpretato da un energico Gino Curcione.
C’è da augurarsi che questo lavoro, stimolante per la complessità delle intenzioni, trovi col tempo un suo migliore assestamento, soprattutto nel delicato equilibrio della macchina scenica; ciò che non è difficile prevedere, stante la qualità degli artisti che vi lavorano.
Teatro Nuovo - Napoli, 30 dicembre 2007
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Cavallerizza Reale - Maneggio Reale
di Torino
(TO)