Per fare del Gabbiano un successo ci vuole un regista capace di scavare sia nell’animo degli interpreti sia tra le righe di Cechov senza la pretesa di trovare un’originalità che soddisfi il suo narcisismo. Lo dice anche Nekrosius che non è certo riconducibile allo stile Stanislavkij e quando si tratta di adottare soluzioni simboliche molto personali – vedi in quel caso i secchi d’acqua al posto del lago - non scherza.
Si parla di una verità che va oltre le questioni di gusto e le tendenze. Marco Sciaccaluga,che firma l'ultima produzione dello Stabile di Genova, affrontando la commedia- tragedia considerata uno snodo del teatro del Novecento, risponde in pieno a queste caratteristiche. Con una compagnia stellare sul fronte artistico, se non divistico, la storia di Nina, ferita nell’anima dall’anziano scrittore Trigorin , di Kostantin, impotente di fronte alla passione di lei per l’uomo che anche amante della madre, di Irina sempre disperatamente in fuga verso la sua vita di attrice, è uno spettacolo da vedere per curiosità, interesse, piacere, non solo per dovere. Non è facile quando si ha a che fare con una delle opere più rappresentate sulle scene mondiali.
Molti spettatori potrebbero sedersi in poltrona con la segreta paura di annoiarsi sulle rive di quel lago, dove una certa idea dell’amore e dell’arte si sovrappongono alla puntuale frustrazione di molti aneliti e speranze. Non accade anche se nelle tre e mezza di rappresentazione non ci sono sconti e se qualche caduta di tensione, inevitabilmente, qua e là si avverte. Stupisce semmai che un’opera di recupero filologico non lasci una sensazione di dejà vu.
Il traduttore Danilo Macrì recupera battute di una prima versione del testo che il regista e gli attori utilizzano come nuova chiave di lettura. Prendiamo come esempio il racconto del maestro Semen a Masha, sui poveri, tanto disperati da rubare un sacco di farina, o su un versante non sociale ma edipico, i commenti di Kostantin sulla vita amorosa della madre. Il riferimento all’Amleto, alla regina Gertrude e allo zio Claudio resta ma non è più il perno del tormento del giovane.
Questo spettacolo sottolinea che Il Gabbiano oggi continua a interessarci per il tema dell’incomunicabilità (o famosi dialoghi che in realtà sono monologhi ) per il rapporto tra i vecchi e dei giovani di fronte all’arte e alla vita intera e, soprattutto, per la tematica del fallimento, delle ali tarpate.
La metafora del titolo e il rapporto uomo natura sono espressi efficacemente dalle scene di Catherine Rankl illuminate da Marco D’Andrea. Le musiche di Andrea Nicolini sono un’ideale continuazione e rielaborazione contemporanea di quelle che, la sera della prima, di sono sentite nel foyer a cura del Conservatorio di Genova: echi di Prokofiev, di Cakovskij e soprattutto di Rimskij-Korsakov.
Elisabetta Pozzi è una grande Irina e consente più identificazioni in platea di quante se ne siano viste in passato, Francesco Sferrazza Papa, nella parte che fu anche di Lavia, gioca su diversi registri di passionalità implosa ed esplosiva al tempo stesso. Tutti da applaudire Federico Vanni, Alice Arcuri, Roberto Alinghieri, Mariangeles Torres, Eva Cambiale Tommaso Ragno, Giovanni Franzoni, Andrea Nicolini.