Il Giardino dei Ciliegi inaugura il cartellone 2018/19 del Goldoni di Venezia. Una scelta impegnativa e coraggiosa, con testo in russo, ma che ha destato grande interesse. Sold out per tre giorni e tanti studenti di russo delle scuole cittadine.
Si intitola Le Stagioni Russe, il progetto tra Stabile del Veneto e Mossovet di Mosca che ha portato Il Giardino dei Ciliegi firmato da Andrei Konchalovsky a inaugurare il cartellone 2018/19 del massimo veneziano. Una scelta impegnativa e coraggiosa, con testo in russo, ma che ha destato grande interesse. Sold out per tre giorni e tanti studenti di russo delle scuole cittadine.
Una farsa e non un dramma
Leggere i sovratitoli è straniante e soprattutto faticoso, ma la curva sonora del russo di Cechov si salda perfettamente al tedio aristocratico di Leonid e alla frenesia di Ermolaj. Le vicende del Giardino di Ciliegi, venduto per salvare i proprietari e acquistato da un discendente di servi, sono fin troppo note: il destino di due mondi ormai in collisione è il senso ultimo di questo capolavoro. Ma Cechov voleva scrivere una farsa, come ci ricordano le sue lettere proiettate in proscenio con l’intento, a volte maldestro, di celare i cambi di scena. Cehov si dice infastidito quando la sua opera è definita dramma, forse per questo Konchalovsky ha scelto una cifra interpretativa barocca.
Bravissimi gli attori del Mossovet, ma quasi sempre sopra le righe: Leonid cerimonioso e machiettistico, Ljubov donna da operetta, Ermolaj senza conflitto interiore nella sua rivalsa sociale, lo studente Pietr uscito da un affresco del socialismo reale e Carlotta Ivanovna, infine, una specie di scherzo della natura. Bozzetti insomma, che sottraggono alla trama ogni accento di amarezza.
Un Cechov imbavagliato
Konchalovsky costruisce il suo Giardino dei Ciliegi come un non-luogo, provocando quel necessario atto di fiducia che il pubblico deve al lavoro del regista. E il pubblico si presta generoso, anche se lo spettacolo non decolla mai per davvero: tutto sembra routine e l’unico guizzo irrompe con i musicanti ebrei assoldati alla festa. Per il resto la messa in scena procede senza particolari spunti e se, come dichiarato dallo stesso Konchalovsky, Cechov può essere noioso, questa messa in scena sembrerebbe confermarlo. Il finale riaccende una scintilla, con l’uscita, da pochade, del vecchio cameriere Firs da un armadio. Sono andati via tutti, di lui nessuno si è ricordato.
C’è però una presenza: la dama bianca, che aveva già fatto capolino. Le serve il tè con deferenza, poi si siede accanto a quel fantasma nel bel mezzo dell’ammasso di mobili che ormai è la casa. Intanto cala una penombra che sa di magia. Ma questo è l’epilogo. Resta la sensazione di uno spettacolo che sarebbe potuto essere, di un affondo che non ha raggiunto il bersaglio, di un Cechov imbavagliato, che non riesce a liberarsi.