Ad oltre 150 anni dalla composizione del romanzo, la trasposizione teatrale de «Il giocatore» si propone come paradigma per lo studio psicologico e comportamentale del temperamento ossessivo- compulsivo, con riferimento specifico al gioco d’azzardo patologico.
Dominato dal vizio e incalzato dai creditori, F. M. Dostoevskij si accinse alla stesura de Il giocatore sotto il vincolo di un contratto capestro che lo obbligava alla consegna in tempi brevissimi: un giogo ansiogeno percepibile con ancor maggiore intensità nella rilettura scenica del romanzo. Contribuiscono all’effetto fondamentali drammaturgici quali l’incisiva sceneggiatura di Vitaliano Trevisan, fitta di dialogati brucianti, la continua interazione tra i molteplici piani narrativi attraversati nello spazio scenico, la foga interpretativa dei personaggi con maggiore valenza tragica.
I primi minuti della rappresentazione ne condensano il nucleo nella similitudine tra le coppie protagoniste, tra finzione e verità storica: Aleksej- Polina e Dostoevskij- Anna Grigor’evna (stenografa de Il giocatore e futura moglie dello scrittore), sostenuti dai medesimi interpreti, sempre “nella parte”, senza cedimento alcuno (Daniele Russo, ubiquitario narratore intradiegetico, e Camilla Semino Favro, a suo agio nei panni di giovane donna spigolosa e tormentata).
Proprio la richiesta da parte di miss Polina di procurare del denaro «irremissibilmente» introduce il tema di fondo, mentre un quesito (quasi una “morale”) campeggia sull’intera vicenda: «Cosa fanno gli uomini se non giocarsi l’un l’altro sempre qualcosa?»
Psicopatologia del giocatore seriale
Che il tentare la sorte- nella rivendita di un tabaccaio o, più ambiziosamente, in seno ad un consiglio d’amministrazione - suggerisce la sceneggiatura- possa regalare brio alla monotonia quotidiana, è un dato di fatto; ma il fenomeno che si vuol qui rappresentare è invece lo sprofondare patologico e progressivo dell’uomo nel gorgo di un vizio che finisce per diventare il motore unico ed esclusivo delle sue azioni.È quanto accadrà alla nonna - l’eccentrica «baboulinka» cui Paola Sambo conferisce colore macchiettistico- e prima ancora - sul versante sentimentale- alla coprotagonista femminile Polina: spinta verso un gioco al rilancio la cui soddisfazione deriva dalla possibilità di vessare e di subire, a sua volta, le ritorsioni dello spasimante di turno.
L’affresco sociale della frivola borghesia europea d’antan è inoltre disegnato con precisione da un cast attoriale ben affiatato in un disegno di regia che preferisce l’evocazione della pagina letteraria attraverso il linguaggio teatrale, all’immediata rappresentazione naturalistica.
Un orientamento emergente, tra l’altro, dalla funzionale suddivisione della scenografia in una cornice bipartita - quasi un rimando alle pagine di un libro aperto- operante su più livelli o dalle riuscite suggestioni che lasciano trasparire lo stato di esaltazione derivante dal gioco d’azzardo.
L’irresistibile pulsione ansiosa verso l’autodistruzione miete la sua ultima vittima nel narratore protagonista Aleskej. Vittima di un persistente complesso d’inferiorità legato alla condizione di umile «outchitel» e pur consapevole di un’intima superiorità intellettuale, Aleksej vive di provocazioni, cercando l’estremo riscatto nel colpo fortunato. Fino all’ultimo quadro, in cui l’interpretazione di Daniele Russo offre un potente ritratto del profondo stato di abiezione, delle distorsioni cognitive operanti in un soggetto con sintomi di ludopatia: perdita di ogni interesse o passione, pensiero ricorrente monotematico, incapacità di autocontrollo, fiducia incondizionata nella possibilità di “rifarsi” delle perdite, falsa coscienza nel procrastinare la cessazione del gioco: «domani tutto finirà».
L’ossessione creativa come rimedio alle dipendenze?
Il più fortunato esito della vicenda personale dell’autore - infine convolato a nozze con l’assistente che gli rese possibile vincere la scommessa de Il giocatore- conclude la pièce con un cauto ottimismo e prospetta possibili risoluzioni. Solo dopo molti anni e tempestose vicende, Dostoevskij, ormai consolidato nella fama, seppe convogliare ogni energia verso il “vizio” della composizione letteraria ed il “rischio” creativo, meno pericoloso, ma totalizzante in misura pari al precedente.
Caratterizzato dal complesso dialogo tra piano storico, finzione diegetica e resa drammaturgica, quest’ultimo capitolo della «trilogia della libertà» - secondo l’ideazione del regista Gabriele Russo- si avventura su una tematica forse di minor “presa” (rispetto agli antecedenti Arancia meccanica e Qualcuno volò sul nido del cuculo) nell’immaginario collettivo, a torto sottovalutata e poco presente nelle opere d’immaginazione. Un ulteriore titolo di merito per un lavoro che propone una riuscita transizione tra campi artistici diversi e riattualizza la grande narrativa, riportando l’attenzione su una piaga sociale in dilagante aumento.