Prosa
IL GRANDE MAGO

Sentirsi donna in un corpo 'sbagliato'

Sentirsi donna in un corpo 'sbagliato'

Quanto può essere difficile nascere in un corpo che senti non tuo? Se poi, a questo disagio, si aggiunge anche quello di vivere in una società che non comprende il tuo malessere? Con chi te la prendi se non con Dio? Certo, per un ateo il problema non si pone. Lui, quel “lui”, non c’è e ogni dubbio, ogni interrogativo prova a trovare risposta altrove, nella scienza magari. Ma quando credi che esista qualcuno, al di sopra di te e dei tuoi simili, di tutta l’umanità che ti circonda, allora le cose sono diverse. Chi conosce la disperazione sa quanto facile sia rivolgere lo sguardo al cielo e chiedere, con rabbia, spiegazioni sul perché certe cose accadano, e riguardino proprio te che volevi solo una vita semplice, senza pretendere niente, solo un po’ di amore e di attenzione.

Una richiesta normale tutto sommato, quella di Andrea, comune ad ogni essere umano: essere accettato per quello che si è. La faccenda è però più complessa, proprio perché il suo “involucro” non corrisponde al suo animo: Andrea diventerà Aurora, tra mille incertezze e sofferenze, dopo un percorso non certo privo di ostacoli. Ma il “grande mago”, dice il protagonista, dovrebbe essere più giusto con le sue creature, non incasinarsi come un comune mortale nel suo disegno divino. E invece no, ogni momento, ogni sofferenza ha la sua ragion d’essere.

Tratto da una storia vera, quella di Andrea che rinasce donna, è una vicenda ancora, tragicamente attuale. E’ la storia di tanti transgender che non riescono a vivere la propria dimensione alla luce del sole, se non correndo il rischio di essere additati, se non peggio. Una storia narrata, a costo di dire una banalità, in modo toccante e intenso. Tuttavia, non c’è altro modo di definire questa pièce, incentrata sulla storia tanto delicata di un uomo alla ricerca della propria identità. Delicata come è quella gestualità femminile, anche un po’ nervosa, che contraddistingue il personaggio, al centro di un monologo lungo e straziante, dove il tormento è prepotente ma pronunciato in modo non troppo urlato. Il dolore di Andrea è, in fin dei conti, composto, ma non per questo meno sentito, anzi. La partecipazione del pubblico è inevitabile, l’angoscia del protagonista è quella dello spettatore, che difficilmente rimane imperturbabile alla rievocazione di ricordi devastanti ma anche teneri: la nascita non programmata di Simone, ad esempio, il frutto di un amore che è più un salvagente - il mutuo soccorso di due sofferenze che si incontrano e si accudiscono - che non passione e trasporto vero.  Comprensione e compassione, ad ogni modo, ricorrono costantemente nel racconto di un cammino che è un calvario impietoso, apparentemente senza fine. Potente l’interpretazione di De Bei, solo e scalzo sul palco, vestito di bianco e con una parrucca che più posticcia non si può, ma preciso e attento a non far diventare il suo personaggio una maschera da film almodovariano, evitando così quell’irritante effetto “macchietta” che avrebbe altrimenti svilito l’opera.

Visto il 10-03-2015
al Franco Parenti - Sala Blu di Milano (MI)