Lirica
IL MAESTRO DI CAPPELLA - LA FURBA E LO SCIOCCO

Il maestro di cappella - La furba e lo sciocco

Il maestro di cappella - La furba e lo sciocco

Il penultimo appuntamento della stagione sancarliana prima della pausa estiva propone, sulle tavole del teatrino di corte del palazzo reale di Napoli, un dittico buffo derivante dall’accostamento di due lavori settecenteschi autonomi, “Il maestro di cappella” di Domenico Cimarosa e “La furba e lo sciocco” di Domenico Sarro, proposti di séguito così da costituire uno spettacolo che dura complessivamente poco meno di un’ora e mezza.
Il primo pannello, atipico dal punto di vista strutturale, è basato su un testo poetico anonimo e risulta di incerta collocazione cronologica (dovrebbe risalire o alle ultime fasi del soggiorno russo di Cimarosa, conclusosi nel 1791, o agli anni immediatamente successivi). La breve “pièce” - un vero e proprio “one man show” - mostra un maestro di cappella (basso/baritono) che tenta disperatamente di governare un’orchestra esuberante e indisciplinata, poco propensa ad assoggettarsi alla bacchetta e spesso dispettosa e irriverente. Il compositore aversano impegna il malcapitato direttore in un’esplorazione ludica dei timbri e dei loro impasti cangianti, attribuendogli specifiche predilezioni stilistiche e irriducibili idiosincrasie (come quella per i corni, certo perché evocatori di uno sgradito significato extramusicale...). A dare smalto a questo personaggio tanto esilarante quanto esile provvede il mattatore Bruno Praticò, che sfodera come sempre una gestualità generosa, noncurante dell’eccesso. La trascinante vivacità dell’interprete, chiamato a una prova più impegnativa sul versante attorico che sul piano strettamente vocale, scongiura il rischio, latente nella partitura, di una deriva didascalica. Il maestro di cappella si muove tra le fila di un’orchestra di fantocci in abiti settecenteschi, disposti a semicerchio e di spalle rispetto alla platea; questo ‘doppio’ inerte e muto della compagine in buca viene spesso animato dall’azione di quattro mimi in maschera, che muovono i manichini a suon di musica per simulare le tecniche esecutive degli strumenti di volta in volta chiamati in causa.
Mentre ancora risuonano le ultime note cimarosiane, come in una sorta di dissolvenza, un cambio di scena a vista trasporta lo spettatore in un nuovo contesto figurativo. Sullo sfondo di una costruzione diroccata giunge un carro di attori girovaghi, i quali con gesti antichi e sapienti e poche suppellettili si accingono ad allestire il loro spettacolo. Questa seconda parte propone un intermezzo di Sarro datato 1731, nato per essere eseguito tra gli atti dell’opera seria “Artemisia”. Il compositore era all’epoca uno dei dominatori del mercato musicale partenopeo, a proprio agio nella scrittura sacra come nei diversi generi teatrali. Non per nulla, nel 1737, ebbe l’incarico di stendere la partitura dell’“Achille in Sciro”, su testo di Pietro Metastasio, per l’inaugurazione del Teatro di San Carlo, voluto dal nuovo re Borbone come vasto spazio di rappresentazioni artistiche e di rappresentanza politica e simbolica. “La furba e lo sciocco” si basa su un intreccio semplice e convenzionale, che evidenzia sin dal titolo il contrasto tra la scaltrezza della giovane intraprendente (madama Sofia, soprano) e la dabbenaggine del vegliardo danaroso e scimunito (il conte Barlacco, basso/baritono). La musica di Sarro è piena di fuoco e si dipana con respiro agile e vario, poco attenta alla coerenza del disegno formale e più incline a potenziare gli effetti suggeriti dal testo poetico (esemplare in tal senso è il trattamento onomatopeico riservato alle due arie di Barlacco). Nella vocalità piuttosto semplice di questa creazione, la dimensione comica trova la propria cifra in una piacevolezza un po’ vacua (specie nella parte femminile) e nei compiaciuti scivolamenti verso il registro grottesco. Gli interpreti colgono e assecondano lo spirito che caratterizza la composizione sarriana: Marilena Laurenza ha timbro nitido, intonazione precisa e “verve” piacevolmente maliziosa; Enrico Maria Marabelli, efficace nonostante qualche imprecisione, conferisce al protagonista maschile una schietta connotazione farsesca. Il regista Lamberto Puggelli inserisce nell’azione alcuni innesti parlati, affidati a Ferruccio Soleri (Arlecchino) e Franco Iavarone (Pulcinella); queste aggiunte, che dovrebbero servire a evocare i lazzi della commedia dell’arte, risultano talvolta opache. A firmare le scene è Nicola Rubertelli, mentre i costumi sono di Giusi Giustino. Nell’insieme il doppio spettacolo scorre lieve e gradevole. 

Visto il
al Corte di Palazzo Reale di Napoli (NA)