Prosa
IL METODO

Telegenici e scenografie per un sicuro successo

Telegenici e scenografie per un sicuro successo

Tra qualche luce ed infinite ombre, è giunto al termine il Napoli Teatro Festival Italia 2015. Un festival che, per approssimazione e mancanza di direzione artistica, ha presentato una programmazione fatta di sessanta spettacoli (tra rassegna principale e Fringe) priva (solo per fare un esempio) di un adeguato piano di promozione e vendita dei biglietti, che ha costretto l’organizzazione alla svendita degli ingressi nel disperato tentativo (dell’ultim’ora) di riempire le sale. Nessun rispetto per le opere, per gli artisti e per gli spettatori (quei pochi che ancora si entusiasmano per eventi del genere) che con ardimento permangono speranzosi nel cercare in quest’evento, anno dopo anno, una maturazione. Resta in loro solo lo sconforto di ritrovare una sempre migliore messa in scena delle miserie cittadine: risorse (umane e pecuniarie) mal gestite, utilizzate con sommarietà, solo al fine di spendere i fondi stanziati e ben lontani dalla pur minima ambizione di creare un reale benessere per la comunità.

Tra le ultime rappresentazioni proposte quest’anno, è andato in scena, in prima assoluta nazionale, Il Metodo; commedia dell’autore catalano Jordi Galceràn, diretta da Lorenzo Lavia. In una sala riunioni scarnamente arredata si trovano, per l’ultimo colloquio congiunto, quattro candidati ad un incarico di manager per un’importante multinazionale. I quattro personaggi, sottoposti alle prove selettive, rivelano nel confronto reciproco la loro ambizione, spregiudicata e cinica. Per successivi colpi di scena è rappresentata la critica che l’autore pone allo sfruttamento dell’uomo da parte del sistema economico globale. Una logica di meccanizzazione dei processi che tende all’esclusiva ricerca del profitto ed alla selezione di personale che sappia per natura o mostruosa auto-deformazione comportamentale rispecchiare tale modello. Il metodo, di cui al titolo, prova ad essere tutto ciò: la caustica narrazione di una logica di selezione. Un testo che, sotto forma di thriller psicologico, porta in scena le succitate idee ma che, alla prova della messa in scena, risulta debole e privo di carisma.

La successione ciclica di micro-colpi di scena porta alla lenta assuefazione della platea che risponde sterilmente all’epilogo ove, ovviamente, è racchiusa la ragion d’essere dell’opera. Un contributo in tal senso è di certo dato dall’eccessiva stereotipizzazione dei personaggi, interpretati con un registro sospinto sul declamatorio. Se ne evidenzia la scarsa resa soprattutto quando l’attenzione della platea è ridestata dai tentativi (ad esempio di Gigio Alberti) di volgere verso il comico-farsesco. La rappresentazione risulta evidentemente assorta tra l’estetica minimal-chic della scenografia (si pensi al regista che interrompe i flebili applausi raccolti dalla compagnia sul proscenio per ringraziare le maestranze oltremodo attive nella costruzione della macchina scenica) e la gigiona consapevolezza di aver con sé un cast formato da popolari attori cine-televisivi (Giorgio Pasotti, Gigio Alberti, Antonello Fassari).

Ne consegue che simpatici volti telegenici, immersi in un bel contenitore, si muovano sulla scena senza consapevolezza: spostano ripetutamente le poltrone, cercando a volte di sedersi sullo schienale; pensosi, provano a stendersi su di un tavolo, per poi rialzarsi frettolosamente, causa la poca tenuta di fiato in quella scomoda posizione. Dall’insieme riesce a spiccare, solitaria, la semplice ma funzionale intuizione, utile a stilizzare l’anomalia dell’individuo che strenuamente prova a liberarsi dall’omogeneizzazione di massa, del ciclico battere dei candidati contro l’unico neon (facente parte della schiera ordinata che compone il soffitto della sala del colloquio) che a tratti si spegne e riaccende.

Visto il 27-06-2015
al Castel S.Elmo di Napoli (NA)