Napoli. Il genius loci d’un teatro giullaresco, Mistero buffo, d’eloquio padano e stra-volgare, rivive ad opera d’un folletto nostrano, come Puck shakespiriano, bizzoso spiritello: Paolo Rossi è il comico. L’essenza primigenia, il corpo che s’acquatta, scatta felino, colpisce al cuore con satira puntuta; e lo spettatore è avvinto, infilzato a puntino. Mistero buffo di Dario Fo (p.s.: nell’umile versione pop), è mistero laico e prosaico d’una realtà contemporanea ormai troppo liquida per afferrarne il senso; e se il Maestro Fo agli albori dei Settanta portava in consessi operai, come adunata, il nuovo grammelot, esperanto rivoluzionario, baldanzoso e popolare, in scia delle antiche giullarate medievali, il suo epigono moderno e sincopato, ne riaggiorna il canovaccio, senza perdersi d’animo, picaro e cantore d’un Italia in disfacimento pop (almeno non si dica che ci manchi il ritmo).
Il Teatro Bellini di Napoli ospita il Paolo-Rossi-pensiero, e mai foyer fu più stipato: il Mistero buffo è rivisitazione carnascialesca di saltimbanchi irriverenti, reinterpretazione vulgare di fascinazioni pagane e misteri cripto-cristiani, apocrife scritture di vangeli in cui Jesus appare stregonesco, fonte di miracoli, così lontano dall’iconografia dogmatica dell’ecclesia ufficiale. E al suono di chitarra dell’ottimo Emanuele Dell’Aquila (son vent’anni e più che accompagna il folletto di Monfalcone) il menestrello ipnotizza platea, inforca pastorale e pennello e dipinge la mediatica caduta di Papa Ratzinger (era il 25 dicembre di qualche anno orsono), quando una “matta”scompigliò le carte e giù Papa e cardinali come domino a contrario; e come tacere di “Gigetto”, alias Berlusconi, che «i miracoli li promette e non li fa»? Un carrozzone di folli troppo veri per non far paura, barnum di grottesche maschere d’italica fattura, mamuthones indiavolati a ballare sul cassero d’una Penisola floscia, che ormai affonda: il tutto condito con verve e mitologia pop (di più, plebea) di umili che si fan beffe dei potenti, di ribalderie impunite, di femmine quatrane, di ultime cene apostoliche trasformate in spettacolari giravolte prospettiche; di un Gesù troppo umano per non amarlo, che sbaglia miracoli, Lazzari mezzi risorti, cimiteri sfavillanti, moltiplicazioni che si sottraggono. Signori e signori, l’incipit, l’aleph: così nasce il guitto, il giullare di Dio, dallo smembramento del divino, corpo e sangue che si mischiano alla terra, rigenerando l’uomo nel riso degli umili, degli ultimi.
Perché son sempre gli ultimi a patire la croce, e se allora, sul Golgota, risplendette il simbolo ultimo della pietas verso gli uomini, il Jesus morente ed ascendente al cielo, in quest’Italia unita e sfatta, s’immola crocifisso il corpo dell’Immigrato, l’ultimo derelitto, il simbolo più estremo. E anche oggi ai piedi del martirio, si strappa le vesti una Madonna dal volto terreo, grembo sgravato eppure avvolgente (una straordinaria Lucia Vasini nel ruolo che fu di Franca Rame), a significare che la Madre è terra di speranza per chi non ha più forza, ma soltanto fede. Laica o misterica, purché sia sincera. Spettacolo di rara intensità, un Paolo Rossi che giganteggia senza risparmio. Applausi, chapeau!