Lirica
IL PRIGIONIERO - IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLU

Milano, teatro alla Scala, “I…

Milano, teatro alla Scala, “I…
Milano, teatro alla Scala, “Il prigioniero” di Luigi Dallapiccola e “Il castello del duca Barbablù” di Béla Bartòk SI VIVE SOLO LIBERI Un inedito dittico per il debutto alla Scala di un grande del teatro, Peter Stein. Ed è spettacolo forte, intenso, teso, con un chiaro e deciso impianto di drammaturgia. “Il prigioniero” conta poche rappresentazioni in Italia dopo il debutto al Maggio (solo un precedente alla Scala), mentre “Il castello” è stato in febbraio al San Carlo (insieme a “L'enfant et le sortilege” di Ravel) e lo scorso anno al Carlo Felice in forma di concerto. Meditata negli anni della seconda guerra mondiale e terminata nel 1949, “Il prigioniero” affronta il tema della libertà umana, sentita e vissuta nel suo aspetto negativo di privazione della libertà che determina angoscia ed ansia di liberazione. La religiosità laica e civilmente impegnata del libretto contribuisce a definire l’impianto drammaturgico di tipo oratoriale e a giustificare il ruolo del coro che introduce nell’opera una componente epica e allo stesso tempo paraliturgica. Se le speranze del Prigioniero sono tragicamente illusorie, il suo sacrificio non è né inutile né vano. Il destino del protagonista appare evidente sin dal principio, tanto che la rappresentazione assume una valenza rituale, come di sacra rappresentazione, e il percorso scenico assomiglia a una specie di via crucis. Infatti Peter Stein ne fa una vicenda politica e religiosa con accenni anticlericali. Il ritratto di Filippo II col toson d’oro e la gorgiera bianca è piccolo ma, con effetto assai scenografico, si ingigantisce per poi trasformarsi in gufo e in teschio; la Madre appare in gramaglie, affannata, corre verso la platea. Durante i cori lunghe processioni, interminabili, di monaci dalle toghe striscianti e dai crocifissi preziosi. Altri prigionieri sono sferzati e spintonati e soccombono alla sopraffazione della Chiesa. Il prigioniero ha le sembianze di un Cristo col corpo nudo violato dalle ferite e dal sangue copioso rappreso. L’incontro con la Madre nel primo atto ha la forza plastica di un Vesperbildt. La prigione è un ambiente stretto e fortemente strombato, come l’interno di una macchina fotografica; il soffitto è irto di punte, strumento di tortura minaccioso e incombente. Poi il tentativo di fuga lungo un corridoio dai muri altissimi, dove il Prigioniero striscia a quattro zampe, oramai privato di ogni dignità, le ossa che tendono una pelle lucida e bianca. Quando pensa di essere al sicuro, da un verdeggiante albero (arbor infelix) il Prigioniero viene ghermito dal Grande Inquisitore in abito cardinalizio reso smisurato da scarpe dall’altissima zeppa (scena di Ferdinand Wogerbauer, costumi di Anna Maria Heinriech). Il finale è spettacolare: un trittico gotico trasformato in modernissimi schermi erutta fiamme rosse dietro la catasta di legna a cui è legato il Prigioniero: la musica finisce, il pubblico resta ammutolito, le fiamme silenziose serpeggiano, nessun colpo di tosse, nessun movimento. Poi un lungo applauso liberatorio. Meritato soprattutto per una regia asciutta, lineare, fortemente simbolica. Vito Priante è un convincente Prigioniero nelle movenze, nella tragica presenza e nella vocalità, mai esasperata e per questo più drammatica e incisiva. La Madre di Paoletta Marrocu è di rara intensità. Corretto ma meno convincente il Carceriere/Grande Inquisitore di Kim Begley. Con loro i due sacerdoti Gregory Bonfatti e Davide Pelissero. Daniel Harding ha diretto l’Orchestra della Scala ottenendo un suono pulito, freddo, dalle geometrie nette e spigolose. Composta nel 1911, “Il castello del duca Barbablù” è l’unica opera lirica di Béla Bartòk ed è compiuta espressione dell’impressionismo simbolista. La rilettura moderna di miti e favole e la loro interpretazione psicanalitica sono un tratto diffuso nel teatro musicale del primo Novecento europeo. Ma se Maeterlinck-Dukas fanno in modo che Arianna porti un po’ di luce nel labirinto mentale e morale di Barbablù, Bartòk è più pessimista e Judit fallisce, finendo nell’oscurità assoluta e lasciando Barbablù solo e nell’oscurità. Il potenziale icastico e visionario dell’autore è esaltato dalla scena di Gianni Dessì (ottima la resa di due diversi scenografi per due opere così diverse tra loro): due grandi parallelepipedi con immagini che rimandano a Klee si voltano a mostrare porte che sembrano tagli di coltello. Una diagonale rossa permette l’ingresso dei due protagonisti come in una segreta, un luogo mentale dove la fuga è impossibile. La gestualità è volutamente più “rigida” rispetto alla plasticità precedente. Nell’aprirsi, le porte svelano solo luci, forti e dai colori intensissimi, rosso, aranciato, giallo, verde, bianco, azzurro, esaltate dalla forza della musica. La quinta porta spalanca il muro di fondo scena e mostra il mondo in una mano, evidentemente quella di Barbablù, mentre la sesta impressiona per le lacrime di sangue che scorrono sullo sfondo ghiacciato. Dall’ultima porta escono tre donne nude in calzamaglia con mantelli botticelliani; Judit si spoglia della sua veste bianca, si lascia coprire da Barbablu da un manto scuro e le segue oltre la settima porta, nel buio, nell’oblìo. Regia improntata a un'essenzialità efficace e travolgente. Straordinaria Elena Zhidkova nel ruolo di Judit, già affrontato al Carlo Felice in forma di concerto, ora bambina innocente, ora sensuale tentatrice, sempre con voce potente e controllata, pulita e piena, facile all’acuto e decisa nei gravi, i centri sontuosi. Autorevole il Barbablù barbuto di Gabor Bretz. Il prologo è affidato a Eors Kisfaludy in frac e cilindro. Daniel Harding incanta sempre per il gesto elastico e preciso, ma qui sembra meno a suo agio e privilegia la dolcezza alla scabrosità ed ai richiami alla musica popolare. Diversi posti vuoti in platea ma pubblico affascinato ed a lungo plaudente. Visto a Milano, teatro alla Scala, il 22 maggio 2008 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)