Nella storia della letteratura mondiale nessuno scrittore è stato capace di entrare nel mito quanto lui, se Omero e Shakespeare ci sono riusciti è stato grazie soprattutto al mistero che c’è circa la loro esistenza, ma l’irlandese Oscar Fingal O'Flaherty Wills Wilde, passato all’immortalità come Oscar Wilde, davvero è stato autore di un’esistenza breve ma così intensa ed originale, che ancora oggi la sua immagine, a più di un secolo dalla sua morte, avvenuta quando aveva appena 46 anni, viene utilizzata come icona di libertà, estrosità ed arguzia, il suo rapporto con la sua omosessualità è esemplare per raccontare l’amore, la spregiudicatezza, il martirio all’intolleranza, ed i suoi aforismi sono i più citati, a partire dai frequentatori dei salotti intellettuali, fino ai pubblicitari a corto di idee. Nulla di più naturale, quindi, che rappresentarne la storia, e se il cinema ci aveva già pensato con il bel film del 1997 diretto da Brian Gilbert, protagonista Stephen Fry, in cui fedeltà oleografica rappresentava uno dei punti di forza, ecco che il teatro, a cui lo scrittore aveva dedicato gran parte della sua produzione, non poteva rimanere insensibile, e risponde all’appello grazie alla pubblicazione, a cura di Paolo Orlandelli e Paolo Iorio degli atti originali del processo. A curarne la messinscena, su drammaturgia di Massimiliano Palmese, l’estro registico di Roberto Azzurro, che, vestendo anche i panni dell’autore di “Salomè”, compie un’eccellente creazione teatrale, che riesce ad evitare la pedissequa riproduzione didascalica di quel primo processo che fu l’inconsapevole primo passo verso la distruzione dello scrittore Wilde e dell’uomo Oscar. Il rischio dell’effetto documentaristico in realtà viene scongiurato anche grazie alla drammaturgia di Palmese, il quale, pur non tradendo l’originale e encomiabile cronachistico lavoro di Iorio ed Orlandelli, taglia e ricuce gli atti processuali, inserendovi aforismi e citazioni letterarie dello stesso scrittore, confezionando così un copione di grande impatto emotivo, che trova indiscutibile energia grazie alla straniante e visionaria regia di Azzurro, che riesce a riportarci nell’aula di tribunale, senza però cedere in nessun modo al facile tranello del realismo interpretativo. Azzurro stesso, nei panni di Wilde, utilizza le parole dello scrittore come fossero tratte da uno degli arguti copioni del Wilde drammaturgo, con eleganza, originalità e divertita verve interpretativa. Il volteggiare delle mani, l’utilizzo della voce e del corpo, realizzano una visione personalissima di Wilde, senza mai tentare la sterile imitazione da cera di Madame Tissauds, discostandosi, in questo modo, nettamente dal luogo comune. Al suo fianco un attore di forte temperamento quale Pietro Pignatelli,(entrambi gli attori qui ritratti in scena da Pepe Russo) impegnato nel difficile compito di far rivivere l’avvocato Edward Carson, accusatore spietato ed incalzante, a cui egli regala un’interpretazione ricca di mezzi toni, composti tic maniacali e sguardi taglienti, il tutto allusivo ad una ben chiara omofobia, senza nessun cedimento al compiacimento gigionistico, a cui la lucidità e la maturità attoriale di Pignatelli non offre in alcun modo appiglio .
Il chiaro intento di Azzurro regista è quello di coinvolgere il pubblico all’interno della vicenda rappresentata, magari tradendo la fedeltà storica con l’inserimento di musiche contemporanee suonate con un poco british mandolino dal bravissimo Marco Sgamato, elegante musicista, ma anche istrionico attore nei ruoli di magistrato impeccabile, di ridanciano e volgare mezzano e dell’ arrogante John Sholto Douglas, marchese di Queensbury, spietato denunciante di Wilde, in quanto padre di Lord Alfred Bruce Douglas, affettuosamente soprannominato dallo scrittore irlandese Bosie, suo grande amore, artefice involontario della sua condanna, qui utilizzato come narratore dei fatti, aumentando in questo modo l’effetto straniante, nell’ interpretazione del giovanissimo Fabrizio Cavaliere, perfettamente calzante dal punto di vista fisiognomico, il quale, seppure ancora acerbo, riesce a far rivivere con efficacia l’ambigua natura del personaggio, anche nei risvolti schizofrenici della sua personalità. Completa il cast l'esuberante Carlo Caracciolo, impegnato con divertito entusiasmo nel difficile compito di far rivivere i tanti ragazzi di vita che Wilde frequentò, quelli che rappresentarono il suo lato oscuro, un lato oscuro che lo portò al disfacimento della propria esistenza.
La regia di Azzurro, in definitiva, rappresenta un equilibrato modo di miscelare arte e realtà, invenzione scenica e cronaca, utilizzando il pubblico che vi assiste nell'interpretare egli stesso un ruolo fondamentale nella partita giocata tra Wilde e Carson , un ping pong fatto di battute fulminanti e colpi bassi, a cui chi vi assisté in tribunale non restò estraneo, ora ridendo, ora sorprendendosi, ora scandalizzandosi, influenzando, probabilmente, con le proprie reazioni, l’esito del procedimento legale, che, com’è noto, si concluse con la condanna del grande scrittore, principe dei salotti decadenti inglesi, ai lavori forzati, umiliazione che lo portò alla solitudine e poi alla morte. Ed è proprio a quel periodo di devastazione fisica e psicologica che seguì alla condanna che è dedicata la chiusura dello spettacolo, con l’utilizzo del più doloroso passo del “De Profundis”, la lunga lettera scritta da Wilde a Bosie durante il periodo di prigionia, un lucido e disperato grido di accusa che Wilde lanciò contro la società perbenista e contro la sua stessa condotta ingenuamente dissoluta, contro un amore forse sopravvalutato, così come fu da lui sopravvalutata la sua stessa onnipotenza morale. Ed è in quel momento che Roberto Azzurro raggiunge un acme interpretativo davvero altissimo, utilizzando le parole di Wilde come un urlo di leone ferito ferocemente scagliato nei confronti di Carson, incarnante l’essenza ipocrita di una società vittoriana non del tutto dissimile, ahinoi, da quella nostra contemporanea, ancora pronta ad accusare l’omosessualità come una malattia o un reato. Ed è con quelle parole, scritte oltre un secolo fa da un artista indiscusso, da un uomo solo e distrutto, che lo spettacolo si afferma come un modo intelligente di fare del vero teatro civile, e gli applausi scroscianti di un pubblico entusiasta accorso a celebrare la giornata contro l’omofobia, tanto numeroso da occupare posti in piedi e a sedersi per terra nel suggestivo salone di Palazzo de Luguori di Napoli, e a costringere organizzazione e compagnia ad eseguire due repliche speciale, quegli applausi, dicevamo, e quel pubblico, donano speranza che ancora una volta il Teatro con T maiuscola sia riuscito nell’intento di far conoscere e pensare.
Prosa
IL PRIMO PROCESSO A OSCAR WILDE
Il Teatro Ideale.
Visto il
17-05-2011
al
Palazzo de' Liguori
di Napoli
(NA)