Di per sé uno spettacolo di un certo fascino, e che avrebbe una sua valenza in altri contesti. Difficile esporlo in poche righe, ma questo Trovatore del Teatro Comunale di Bologna proprio non ci convince
Le scelte drammaturgiche di Robert Wilson – mai facili per opzioni visive minimalistiche, incessante lavorio di sottrazione, ieratica gestualità - generalmente colpiscono il segno. Pensiamo ad intriganti ideazioni per Aida, Turandot, Madama Butterfly. Ma questo Trovatore del Teatro Comunale di Bologna proprio non ci convince.
Difficile esporlo in poche righe: in una scena lasciata interamente vuota, Wilson procede di fatto unicamente con un gioco di luci – peraltro suggestivo – costruendo un succedersi di quadri astratti, che negano ogni emozione e tantomeno ogni collocazione romantica. I personaggi si muovono pochissimo; e quel pochissimo a scatti, come automi, con volti cerulei ed espressioni immutabili. Di per sé uno spettacolo di un certo fascino, e che avrebbe una sua valenza in altri contesti. Ma non qui.
Drammaturgia avulsa dal contesto musicale
E' un teatro che non lega intenzionalmente, né con quanto accade, né con quanto i personaggi dicono; ed ancor meno ahimè con il corso della musica. Ermetici per di più appaiono gli inserti del vecchio barbuto, della grottesca bambinaia, della famigliola alla fontana. E perfettamente superflua infine è la lunga esibizione di boxeurs, che all'ultimo Festival Verdi di Parma accompagnava i ballabili della versione francese dell'opera - Le trouvère – trovando lì una qualche ragione d'esistere. Ma che ora – assente la musica – diviene una pantomina scandita da schiocchi di frusta, spezzando senza costrutto il flusso narrativo. Quanto agli stilizzati costumi con cui Julia von Leliwa veste i personaggi, assecondano la concezione dell'artista americano con un'eleganza algida e severa.
Distacco in scena, controllo in orchestra
Il gelo sulla scena raggiunge purtroppo anche gli interpreti, prigionieri dell'immobilità ed impossibiliti ad abbandonarsi al canto. Ma poca eccitazione arriva anche dal podio, dove Pinchas Steinberg elabora una concertazione precisa, nitida, rifinita – dettagli e finezze non mancano - ma incapace di prodigare vere emozioni. Assolve cioè il suo compito con ottimo mestiere, ma senza slancio e fantasia, indugiando poi sovente in tempi allentati. Cosa più grave, però, ci nega il piacere dei da capo nelle cabalette; e lascia che gli interpreti passino talvolta sopra i segni d'espressione. Cosucce che, per carità, Verdi ha scritto solo per i più pignoli...
Di fronte, il secondo cast
Abbiamo di fronte il secondo cast, nel quale purtroppo latita un po' il protagonista, poiché il Manrico di Diego Cavazzini manca del fraseggio nobile ed ampio, e dell'eloquenza vocale necessaria a tale eroica figura. Non è solo questione di puro canto, bensì di carattere; ma con altra regia, chissà... le cose potrebbero essere diverse. La figura di Leonora al contrario pretende grazia, morbidezza, tenero sentimentalismo: requisiti che ritroviamo in Marta Torbidoni, sostenuti per giunta da una tecnica adeguata.
Alle prese del Conte di Luna Vasily Ladyuk mette in campo gran temperamento ed una colonna di fiato ragguardevole; spuntano però una certa rigidezza nel fraseggio, qualche eccesso di sfogo, qualche approssimazione nella resa testuale. Cristina Melis dipana con cura l'intricata psicologia di Azucena, con buona correttezza di canto e varietà di colori. Marco Spotti sorvola un po' sulla parte di Ferrando, musicalmente approssimativa; il corollario di comprimari vede l'Ines di Tonia Langella, il Ruiz di Cristiano Olivieri, lo zingaro di Nicolò Donnini. Buona prova del Coro, diretto da Alberto Malazzi.