In tempi di pandemia il successo del Rigoletto al Circo Massimo della scorsa estate, con la regìa di Damiano Michieletto, e de La Traviata - opera film per la tv diretta da Mario Martone - ha suscitato grande attesa per la nuova edizione de Il Trovatore, a completamento della riproposta della Trilogia popolare verdiana sempre con la direzione di Daniele Gatti per il Teatro dell’Opera di Roma.
Lasciata, per il momento, la sede consueta della stagione operistica estiva delle Terme di Caracalla, anche in questa occasione è stata utilizzata parte della cavea del Circo Massimo dove è stato allestito un palcoscenico di grandi dimensioni ed una grande tribuna per il pubblico, per rispettare le prescrizioni di distanziamento.
L’esecuzione all’aperto condiziona pesantemente la fruizione, anche perché l’amplificazione, sostanzialmente di buona qualità, non sempre è rispettosa degli equilibri previsti ed attesi. Inoltre la messa in scena in un grande spazio pone alla regìa, in questo caso di Lorenzo Mariani, la necessità di letture inconsuete che possono disorientare.
Una messa in scena minimalista
La scelta minimalista della scenografia, limitata a quattro grandi tavoli e numerosi sgabelli, spostati continuamente a costituire geometrie un po’ metafisiche, insieme ai costumi neri di tutti i protagonisti, ha enfatizzato il clima oscuro e tragico, ma ha suscitato grande perplessità perché è sembrata slegata dall’impianto narrativo.
A integrare la scarna scenografia c’è un grande schermo su cui scorrono, letteralmente, immagini di cieli con nubi incombenti e minacciose che si alternano con vampe di fuoco.
I personaggi sono caratterizzati da grande staticità, i movimenti sono limitati e, talvolta un po’ incongrui come quando Leonora canta in piedi sul tavolo.
La musica più amata
Dal punto di vista musicale le cose vanno decisamente meglio, l’orchestra nelle mani sapienti di Daniele Gatti brilla per capacità di distillare analiticamente ogni sfumatura, accompagnando con discrezione ed efficacia i cantanti, ma emergendo con autorevolezza nei brani più amati.
L’invenzione musicale di Verdi compensa il confuso impianto narrativo che deve ricorrere all’artificio del racconto dell’antefatto per dare una successione comprensibile degli avvenimenti e della tragedia, che nell’immaginario popolare è comunque oscurata dal fascino delle arie, delle cabalette e dei cori.
Grande protagonista è stata Clémentine Margaine, una Azucena appassionata e convincente, grande cantante ed efficace attrice. Fabio Sartori ha una bellissima voce, un vero tenore verdiano, il suo Manrico è ricco di sfumature, apprezzatissimo nel Miserere fuori scena, ma anche nella “pira” dove evita con eleganza l’acuto finale di certa tradizione; purtroppo qui, forse per un problema di microfoni, viene malamente raddoppiato da un impertinente ottavino.
Roberta Mantegna nella parte di Leonora è sempre efficace nel canto e sulla scena, ma forse è sembrata un po’ troppo cauta nelle sfumature. Le sue grandi capacità sono comunque emerse in Tacea la notte placida e nell’appassionato Miserere.
Il Conte di Luna di Giovanni Meoni è stato molto applaudito ne Il balen nel suo sorriso e nel duetto con Leonora nel quarto atto. Tra i comprimari da citare Marianna Mappa nella parte di Iris e l’atletico Domingo Pellicola in quella di Ruiz, felice esordio per due allievi del progetto “Fabbrica”-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma.
Impeccabile come sempre la prestazione del Coro diretto da Roberto Gabbiani, efficace nelle mezze tinte e entusiasmante nelle esplosioni del Coro degli zingari.