Il Trovatore mancava alla Fenice da trent'anni e, dopo la Traviata che ha inaugurato il teatro ricostruito (e che praticamente è divenuta un appuntamento annuale in settembre) e il recente Rigoletto che sarà presto ripresto, si è così completata la trilogia popolare con l'allestimento che inaugurò il Festival Verdi al Regio di Parma nel 2010.
La scena di William Orlandi è vuota, una scabra superficie lunare desertica avvolta nel buio tenebroso (“Deserto sulla terra” canta Manrico nel prim'atto). Un cavallo bianco (statua o piuttosto un grande giocattolo) accompagna l'ingresso di Leonora, mentre l'atto di Azucena ha un drappo rosso di traverso (come i costumi) e un cospicuo bottino di furti zingareschi. Il resto è dominato da Castel del Monte, piccolo in lontananza o grande al centro, riprodotto sempre nei minimi dettagli, persino la trifora che guarda verso Andria. Una foresta di enormi spade conficcate a terra campeggia a un certo punto. Fortunatamente sono stati eliminati i brutti candelotti intorno al letto per il duetto Leonora-Manrico: qui, più efficacemente, i sipari si schiudono poco per restringere lo spazio scenico rendendolo più intimo. Spesso sul fondo una luna enorme e incombente, bianca oppure rossa, a destra o a sinistra, piena o rivelata da un'eclissi velocissima, presa mentre tramonta nel finale. Il sipario, in due metà, riproduce ancora il castello federiciano e un condottiero a cavallo, rimandando a uno stile eclettico vicino a Francesco Paolo Michetti.
I costumi, sempre di William Orlandi, sono di un'epoca storica poco precisa, più vicina al Rinascimento che all'Ottocento.
Le luci di Christian Pinaud valorizzano gli spazi vuoti principalmente con fari messi di taglio e praticamente risolvono lo spettacolo, poiché Lorenzo Mariani non interviene in modo visibile nella storia, immergendo tutto nel buio notturno delle scene e privilegiando la staticità; poco incisivi anche gli ovvi movimenti delle masse corali. Efficace nel finale, quando Leonora e il Conte se ne vanno lentamente in silenzio mentre dai lati opposti entrano in scena Manrico e Azucena dopo che il sipario si è schiantato a terra con un sonoro tonfo.
Riccardo Frizza ho diretto una partitura febbrile senza invece sottolineare nulla, dall'inizio alla fine, in modo grigio e monotono e con qualche larghezza di troppo (ad esempio nel “balen del suo sorriso”). Franco Vassallo è un Conte di Luna corretto e incisivo nonostante la poca morbidezza rispetto a interpretazioni che ci ha regalato in passato. Maria Josè Siri è una Azucena freddina e col timbro aspro, la cui voce si perde nei pianissimi troppo deboli. Stuart Neill è un ottimo Manrico dalla voce sicura che trova accenti sentimentali seducenti; l'acuto non è squillante ma è saldissimo e prolungato nella durata, il che manda in visibilio il pubblico sempre internazionale della Fenice, come in “All'armi”. Veronica Simeoni è un'Azucena piuttosto monotona, soprattutto perchè la voce non ha quel peso nel grave capace di rendere la febbrile visionarietà di alcuni momenti. Corretto il Ferrando di Giorgio Giuseppini, meno precisa la Ines di Anna Maria Braconi, debole il Ruiz di Cosimo D'Adamo. Con loro Enzo Borghetti (un vecchio zingaro), Giovanni Deriu (un messo) e il coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Pubblico numeroso e internazionale, molti applausi.