Presentata in anteprima al NTFI 2017, In attesa di giudizio, la nuova creazione di Roberto Andò, si presenta come un’opera complessa, “una requisitoria senza appello sul senso del processo” in grado di approdare ad un’accorata meditazione sui temi ultimi dell’esistenza.
Quale inconsueto legame potrebbe accomunare un’aula di tribunale, un crimine efferato ed una messinscena teatrale? Il nesso, denso di implicazioni, tratto dal racconto breve di Thomas Bernhard È una commedia? È una tragedia?, Racchiude come tema conduttore In attesa di giudizio, questo sfaccettato studio sul “teatro della giurisprudenza”.
Serrato nella sua «severa solitudine», un giudice pensoso - l’ottimo Fausto Russo Alesi - ragiona sul disagio provato nel recarsi a teatro, oggetto di ambivalenti pulsioni. Il paesaggio desertico e surreale sollecita la risoluzione grazie al decisivo incontro con un’altra anima dolente, un reo di femminicidio (Filippo Luna), che, estinto il debito secondo la giustizia degli uomini, deve ora scontare l’inesorabile pena di vivere, la condanna perpetua inflitta dalle leggi non scritte della colpa morale.
Dunque, davvero poco importa che cosa si rappresenti sulla scena- se una commedia o una tragedia- quando l’intera macchina teatrale, specchio fedele dell’ignobile farsa del vivere sociale, funziona da cassa di risonanza alla dissolutezza degli uomini, a tutti i mali del mondo: «Disprezzo il teatro, odio gli attori, per me il teatro è un’unica perfida maleducazione, una maleducata perfidia».
Dalla crisi del diritto alla “giustizia-farsa”
La similitudine iniziale prosegue nella seconda parte dello spettacolo, nata dall’intersezione tra le riflessioni contenute ne Il mistero del processo del giurista nuorese Salvatore Satta e la drammaturgia originale dell’autore-regista Roberto Andò. Le elucubrazioni del giurista si materializzano in un’installazione sincretica entro cui agiscono, alla maniera di tableaux vivants numerosi gruppi di vittime e carnefici tratti dalla cronaca nera contemporanea.Si dispera però in facili risoluzioni: non riuscirà certo a ristabilire un barlume di giustizia l’insulsa cerimonia giuridica, parodia del “giusto processo” cui assistiamo frattanto sul proscenio, con le parti canoniche in causa impegnate a sopraffarsi a vicenda senza preoccupazione alcuna per il merito del contendere. Sullo sfondo, l’annoso problema di un sistema- giustizia kafkiano e malato nel profondo: situazione di per se stessa sufficiente per invocare l’assoluta arbitrarietà di ogni giudizio, il fallimento del diritto codificato dagli uomini? Il celebre Gorilla di De Andrè, presente in scena e nell’intermezzo musicale, suggerisce la parziale quanto sconfortante risposta del drammaturgo.
”Il mistero del processo” e l’umanità “In attesa di giudizio”
Del resto, la «malattia del sentenziare», l’irresistibile tentazione di separare - anche a torto- i colpevoli dagli innocenti, sembra connaturata al genere umano dai suoi albori, come testimonia la somma ingiustizia perpetrata ai danni della Vittima per eccellenza, Gesù Cristo. Mentre i laboriosi figuranti in scena si trasformano in folla sediziosa urlante vendetta, Ponzio Pilato - emblema del governante di turno, con dubbie argomentazioni, giustifica i suoi pari, ritenendo che costoro, in virtù dell’importante ruolo rivestito, non possano «serbare le mani pulite».E tra gli echi di filosofie vitalistiche del secolo scorso - la vita come flusso di energia inarrestabile- e l’idea che processo, giudizio e pena siano procedure tautologiche quanto inevitabili (il mistero del processo paragonato a quello della vita), si afferma il concetto per cui l’unico giudizio fondato potrà profilarsi solo a cose fatte, al termine dell’esistenza individuale o del corso della storia. Ipotesi forte e tutta da verificare come i tanti nodi critici sollevati da una drammaturgia dai forti contrasti, ridondante quanto tecnicamente ineccepibile.