Io, Don Chisciotte segna il ritorno sulle scene di Fabrizio Monteverde. L’artista romano presenta un’opera di cui cura regia, scenografia e coreografia mentre le musiche sono di Ludwig Minkus.
Io, Don Chisciotte segna il ritorno sulle scene di Fabrizio Monteverde, uno tra i coreografi contemporanei più stimati d’Italia. L’artista romano presenta un’opera di cui cura regia, scenografia e coreografia mentre le musiche sono di Ludwig Minkus e autori vari.
Una resa contemporanea che riesce a mantenere una certa fedeltà all’opera e dove movimenti (come gli stacchi resi dal grand plié), suoni (body percussion e urla), sonorità (come quelle rievocative spagnoleggianti) - perfino i silenzi - hanno un altissimo livello narrativo.
Il ballo dell’Io
Lo spettacolo parte con il celebre monologo A tutti gli illusi, attraverso una calda voce fuori campo che invita così a perdersi nell’incespicare dell’Hidalgo. Questa versione, molto più delle precedenti, rappresenta la rivincita del senso “individuale” contro la supremazia dell’astratta “universalità” delle leggi.
È tutto giocato nell’alterità, tra i sogni e le illusioni e l’incombente realtà. Una lotta contro i mulini a vento che diventa la metafora psicanalitica della ricerca di una propria identità. Sono proprio le letture cavalleresche a influenzarlo e trascinarlo in un mondo fantastico, trasformandolo nel cavaliere errante. I libri a lui cari sono fra i pochi oggetti scenici presenti perché tutto è affidato alla dirompente e sentita coreografia. L’ultima eccezione consiste nella giacca usata in modalità torero.
La coreografia dell’anima
Sul palco vediamo una automobile abbandonata, una sorta di cavallo postmoderno. Tra i vapori c’è un mondo in divenire che corrisponde alla resa scenica dell’opera che si fonda sempre sullo stesso principio dell’originale: credere nei propri sogni nonostante la società non lo permetta.
La celebre opera di Miguel Cervantes viene così reinterpretata calcando la doppiezza, la cosiddetta “con-fusione” degli opposti. L’ancor più celebre “lotta contro i mulini a vento” diviene l’allegoria della ricerca di un'identità ed è magnificamente resa da delle prese speciali che con il favore del buio rendono i ballerini ancora più alti.
Come si può notare dal principio, anche per questo lavoro rimane lo stile elaborato da Monteverde contraddistinto cioè da una dinamica gestuale dal forte impatto.
A rendere i contrasti ci sono i giochi d’ombra e luce, ad opera del bravissimo light designer Emanuele De Meria, ma anche il bianco puro del cavaliere errante (un sentito Riccardo Ciarpella) e di un insolito Sancho Panza al femminile (l’intensa Azzurra Schena che si libra magnificamente nonostante la pancia per simulare la gravidanza) contrapposto al nero dei restanti.
Un plauso alla grazia del Balletto di Roma che trionfa nella sua interezza: nove danzatori perfettamente in armonia. La Dulcinea, interpretata da Roberta De Simone, si riserva una nota per la leggiadria dell’interpretazione: in questa versione anziché essere una contadina è una prostituta e quindi un’emarginata dalla società. Monteverde ha il pregio di aver reso attraverso dei modelli coreografici fondamentali la drammatica lotta interiore ed esteriore.