Incomunicabilità, questo uno dei temi portanti di "Io sono il vento".
L'incomunicabilità, però, questa volta non è totale, completa: vi sono spazi nei quali si può comunicare quasi totalmente e sono gli spazi della condivisione; ma che tipo di condivisione?
Avere un esperienza da comunicare è praticamente impossibile se l' "altro", colui che ascolta o che chiede, non ne ha fatta diretta esperienza; allora sì, allora il dirsi diventa possibile grazie ad una condivisione di esperienze se non uguali almeno simili; ma è una comunicazione non fatta di parole ma… di sguardi? di relazioni spaziali? Di presenze? Di silenzi? .
Il resto sono parole, tentativi, vento...
La cosa che sorprende di questa piéce è il lavoro di drammaturgia operato dal regista: vi è tutto un testo non detto, incomunicabile, ridicolo anche solo nel pensiero di una sua verbalizzazione perché puerile, piccolo, patetico; che viene agito soltanto fisicamente nel tentativo di parlare, tentativo che non riesce.
Tutto questi accenni di inizio discorso, tutte queste apnee dove si legge la volontà di comunicare frenata dall'impossibilità di farlo o meglio di avere qualcosa di verbale per farlo, rendono in modo eccellente il senso del silenzio che dice tanto di più delle parole e che addirittura articola un discorso, ha una sua sintassi.
Come dire, tento di parlare, forse anche perché mi pesa il silenzio, perché ne sento la necessità, ma poi mi trovo a non avere parole per dirlo e sto in silenzio; vivo la tua presenza e so che capisci perché già sai quello che voglio dirti e quindi inutile parlare: già sai, nonostante tutto forse non sai, e tento di parlarti, ma non c’è niente nel parlato che non sia soltanto parola e quindi resta solo il tentativo del dire che si fa lui stesso comunicazione.
Nella condivisione di esperienze vi sono presenze, corpi, esperienze che vanno vissute per capire cosa ti lasciano, il resto, di nuovo, parole, soltanto parole e quindi...vento...
Ecco perché il testo si riconosce come interessante ma stupisce tutta una parte di drammaturgia che non può essere ascritta all'autore se non, forse, in parte e che quindi è imputabile al regista.
La prova attoriale, poi, non poteva che essere assegnata a due magnifici attori di grande esperienza e con un grande affiatamento come Riccardo Naldini e Francesco Acquaroli che recitano un non detto con verità, presenza, credibilità, pur nell'assenza di ogni concretezza scenica.
Difficile, arduo, anche perché il testo è forse senza parole, non c’è nulla da dire e ciò che si dice è così…per dire…., perché ci scappano suoni, per un’assurda abitudine a parlare; ma il testo vero è nei corpi, nell’esperienza che si portano fisiognomicamente addosso, per come stanno accanto, per come si muovono….
Si riconferma, sempre che ce ne fosse bisogno, anche l'impianto scenografico di Milopulos: come rendere la pesantezza di un sasso che cade a fondo e contemporaneamente qualcosa che funga da specchio del proprio io (il sasso?), specchio nel quale non mi specchio mai completamente, direttamente... ...incomunicabilità?...anche con la propria coscienza?....
….e per comunicare quanto è interessante lo spettacolo si usano parole…
Visto il
11-10-2009
al
Della Limonaia
di Sesto Fiorentino
(FI)