Lirica
JENUFA

Jenufa, un dramma possente e sempre attuale

Jenufa, un dramma possente e sempre attuale

Non si può dire che il teatro musicale di Leóš Janáček, pur se compositore di fondamentale importanza nel panorama del Novecento, sia conosciuto in Italia quanto meriterebbe. Per accostarsi ad esso, infatti, si dovette attendere addirittura il secondo dopoguerra, procedendo poi con tappe un po' estenuanti: la prim rappresentazione italiana di Jenůfa è un vanto della Fenice (1947), per la prima di Kátia Kabanová si dovette arrivare dopo dieci anni dopo all'allestimento del Maggio Fiorentino (1957), e per La volpe astuta all'iniziativa milanese della Scala (1958). E con un salto di un ulteriore decennio, per vedere Da una casa di morti bisognò giungere al 1966, quando venne presentata alla Sagra Musicale Umbra, ed al 1967 per la messinscena a Firenze de L’affare Makropulos e del dittico Le avventure del Signor Brouceck. Via di questo passo, l'ultimo approdo, in ordine di tempo, dovrebbe essere quello di Šárka, il breve melodramma scritto nel 1887 ma rappresentato solo nel 1925, che fu dato nel 2009 alla Fenice. Istituzione quest'ultima, peraltro, che credo abbia pure il merito d'aver presentato sinora la maggior parte dei suoi lavori, l'ultimo dei quali, nel marzo 2013, uno stupendo Vĕc Makropulos a cura di Robert Carsen. Negli ultimi decenni comunque le cose non sono molto migliorate ma con il vantaggio, almeno, che i suoi titoli sono ora tutti presentati in lingua originale, restituendo quella strettissima connessione tra parola e musica che è consustanziale al procedere compositivo del grande musicista moravo. Premesso questo, va detto che, almeno all'inizio, anche in patria le cose per Janácek non giravano per il verso giusto: la prima assoluta di Její pastorkyňa, tenutasi nel 1904 nella piccola sala teatrale di Brno – la città dove il musicista visse e lavorò quasi tutta la sua vita - passò praticamente inosservata; e l'opera venne ignorata sino al 1916, allorché venne ripresa con lusinghiero successo al Teatro Nazionale di Praga. Ma il lancio definitivo l'ebbe solo due anni dopo, alla Hofoper di Vienna, con il titolo di Jenůfa nella traduzione tedesca di Max Brod: fattore fondamentale, che le permise finalmente di diffondersi in molti altri teatri europei.
Approdata al Comunale di Bologna solo nel 1974, con la memorabile regia di Josef Svoboda e le forze del Teatro Nazionale di Praga, Jenůfa vi fa ora ritorno con un nuovissimo allestimento realizzato in coproduzione con il Théâtre Royal de La Monnaie di Bruxelles – sala dove è già andata in scena a gennaio 2014 - e con il Bolšoj di Mosca.  E' una delle rare volte che viene offerta al pubblico nostrano, dato che dal 1947 ad oggi non s'arriva nemmeno a sfiorare una decina di produzioni. In compenso, il Regio di Torino ha annunciato per le tre prossime stagioni altrettanti titoli di Janáček...buon segno.
La particolare atmosfera di questo lavoro, che oscilla tra l'idillio campestre delle scene corali e il cupo dramma sociale ed esistenziale che stringe le due protagoniste, ma sopra tutto la particolarissima sua musica, che si mostra allo stesso stempo “arcaica e moderna, folkloristica ed autonoma, aggressiva e delicata, in cui l'elemento folkloristico è solo una cornice”, secondo la felice sintesi di Franco Pulcini (autore di un recentissimo saggio su Janáček, edito da Albisani Editore) non sono per nulla agevoli da concretizzare in scena. Eppure sono state perfettamente assecondate dalle felici scelte registiche e dalle straordinarie scenografie di Alvis Hermanis, il cinquantenne responsabile del Teatro Nuovo di Riga che negli ultimi tempi si è rivolto anche alla regia lirica, mietendo alterni consensi: l'ultima in ordine di tempo quella de Il trovatore a Salisburgo nell'agosto 2014, dove ha costruito uno spettacolo dal felice ma ripetitivo spunto iniziale – la trasformazione del Grosses Festspielhaus in una immensa pinacoteca dalle pareti mobili – che non a tutti è piaciuto sino in fondo.

Qui le scelte di Hermanis, alle prese con un dramma a forti tinte che non risparmia emozioni (gelosia e rancore tra fratelli, un volto sfregiato, l'infanticidio di un figlio illegittimo, un matrimonio di ripiego) sono cadute su una visione frontale a due registri, incorniciati ai due lati da mutevoli intelaiature folkloristiche: l'inferiore, più basso, nel quale si dipana di fatto la vicenda; l'altro, più in alto, dove ruotano grandi video proiezioni, che quando serve lasciano il posto alla coloratissima gente del villaggio disposta su tre alti gradoni. Nel primo e terzo atto, le immagini appaiono di pretto sapore liberty, in un carosello di motivi decorativi e quadri d'epoca di Alfons Mucha ad altri; i variegati costumi ed i stravaganti copricapi di sapore filologico– un tripudio quasi grottesco di tinte, di nastri e di fiori – disegnati da Anna Watkins, sono volutamente ispirati ai quadri del pittore Joza Upkra – grande amico di Mucha – fertile narratore del mondo agreste della Moravia dell'Ottocento. Nel secondo atto tuttavia le cose mutano completamente, proponendo allo spettatore quasi un trauma visivo: le proiezioni divengono cupe e grigiastre, e nel registro inferiore viene descritta una moderna abitazione assediata dal gelo, squallida, muffosa e poco pulita, dove tutti vestono abiti d'oggidì: è qui che, mentre si pelano patate, matura l'infanticidio del bambino di Jenůfa e Števa da parte di un'allucinata Kostelnička. E quel senso di singolare straniamento che aveva preso lo spettatore all'inizio si dissolve, mentre i personaggi - che prima si muovevano con astratta gestualità da marionette, come fossero costretti ad agire loro malgrado - ora appaiono umanissimi, chiamati ad una recitazione eccitata e di vivido realismo: come la folle reazione della matrigna, che cerca di nascondere nel freezer gli abitini del nenonato appena gettato nel fiume. Nota di singolare carattere, nel primo e terzo atto Hermanis impiega le complesse coreografie inventate da Alla Sigalova – un mélange di Djagilev, musical e gestualità orientale - sviluppate rigidamente in orizzontale, poiché lo spazio offerto è quello dietro ai cantanti relegati ad agire solo in proscenio. Diciotto danzatrici  inquadrate in una lunga nicchia, chiamate a movenze dal carattere squisitamente  ornamentale che non hanno la minima attinenza alla vicenda, creando uno stravagante ed ossessivo fondale scenografico in bizzarra frizione con quanto accade in primo piano.
La stessa ricerca di spiccata motilità si ritrova pari pari nell'arroventata concertazione di Juraj Valčuha, sempre tesa nel reggere l'arco narrativo, sempre alla ricerca di una sanguigna e imponente teatralità. Il direttore slovacco ottiene dalla bravissimaorchestra del Comunale, inpegnata in un tour de force ragguardevole, un'estrema dilatazione dei suoni, una dinamica martellante, copiosa varietà nella paletta cromatica; ma scova anche un'inaspettata, patetica dolcezza per il misterioso notturno del secondo atto. E poi raggiunge due cose che sono essenziali: respirare ed interagire a fondo con i cantanti, e prontezza nel delineare quella miriade di cellule tematiche che costellano questa, ed ogni altra partitura di Janáče.
La vera protagonista della serata è Angeles Blanca Gulin, attrice grandissima sopra tutto nell'organizzare il delirio allucinato – ma pure intriso di un sua logica - col quale Kostelnička matura e porta a compimento il suo delitto. Un'interpretazione magnifica, grazie anche al possesso di robuste e malleabili virtù vocali, che restituisce alla tragica figura della sagrestana tutta la sua grandiosa levatura drammaturgica. Regge bene però il confronto il soprano slovacco Andrea Dankova, chiamata a dar vita a Jenůfa: timbro luminoso e solida emissione, linea vocale senza mende, ed un forte temperamento hanno dato piena vita alla speranza, all'amarezza, al tormento, infine alla rassegnazione della giovane donna. E quindi fresco candore nel monologo di presentazione, accorata malinconia nella preghiera alla Vergine, appassionata sofferenza nel momento del dolore, profondità e verità di sentimento nel duetto conclusivo. I due tenori si disimpegnano con perizia, reggendo bene due ruoli ostici e plasmando vigorosi personaggi: il ceco Ales Briscein è il baldanzoso e superficiale Števa, l'americano Brenden Gunnel il nevrotico ed impulsivo Laca. Parti di fianco più che valide: Gabriella Sborgi (la vecchia Buryjovka), Maurizio Leoni (il mugnaio Starek), Luca Gallo (il sindaco Rychtar), Monica Minarelli (sua moglie Rychtarka), Leigh-Ann Allen (Karolka), Arianna Rinaldi (Pastuchyna), Roberta Pozzer (Barena), Sandra Pastrana (Jano), Grazia Paolella (Tetka). Eccellente la prova del Coro del Comunale preparato con cura da Andrea Faidutti. Le sapienti luci sono di Gleb Filshtinsky, le elaborazioni video di Ineta Sipunova.

Spettacolo veramente memorabile, che il pubblico bolognese ha giustamente mostrato di saper apprezzare regalando lunghi applausi agli interpreti.

Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)