Anzitutto, la sorpresa più piacevole, da dire anche con un certo compiacimento: fa ridere. Quasi tutto, di questo nuovo testo di Pau Mirò, “Els Jugadors” (Jucatùre), rimane all'interno di un'atmosfera sorridente che convince sia per la sua presenza nell'immaginario sociale di oggi, sia per il suo contrario, ovvero l'assenza di riferimenti specifici e geografici che lo possa collocare in un preciso e definito luogo, sia infine per un linguaggio indovinato che nel vernacolo rende il colloquio alla portata del sicuro ricordo di qualunque spettatore.
Quella che definiamo come sorpresa, è frutto di una nota di presentazione dalla quale si coglieva la potenzialità dell'ironia, ma non certo nella forza e nella misura in cui si è rivelata tale, e questo anche grazie ai quattro protagonisti: Enrico Ianniello, Renato Carpentieri, Tony Laudadio e Giovanni Ludeno.
Enrico Ianniello fa il bis, dopo il successo di Chiòve, con cui era stato riadattato, anch'esso in napoletano, il lavoro catalano “Plou a Barcelona” per riproporlo sotto la chiave dei Quartieri Spagnoli.
I personaggi sono, appunto, proprio e solo personaggi: non hanno nome ma solo quell'identificazione sociale legata al mestiere (un barbiere, un becchino, un attore ed un professore di matematica), che mestiere è poi per modo di dire, legato com'è alle alterne onde della fortuna, e nemmeno attaccati al resto del mondo per il tramite di legami particolari (chi con una moglie con cui l'amore sostituisce solo la paura dell'abbandono, chi con una prostituta dell'est che gli sembra possa trasmettergli “un po' di vita sua” in misura bastevole da fargli pensare di seguirla “al paese suo”, chi con la memoria familiare del padre scomparso).
I quattro hanno il loro mondo dentro quella stanza in cui si ritrovano usualmente a giocare a carte, occasione tanto frequente quanto liberatoria anche per il piacere più elevato che viene esteriorizzato in tale occasione, quello della condivisione delle proprie miserie, un "venir fuori" introspettivo che lì dentro, in quel circolo emotivo di similitudini passive, assume il coraggio e la mezza follia che consente il supporto di compagni di avventura e sventura, fino a concordare su slanci filosofeggianti (“noi non giochiamo per vincere, giochiamo per quell'istante in cui si gira la carta e si decide il destino”) ed a prendere inattese ed ardite decisioni altrimenti inimmaginabili.
Ed il trait d'union resta sempre una grande capacità di rimanere saldamente nelle battute che collegano quel loro mondo/ovunque (memorabile il leit-motiv delle reminiscenze onanistiche legate a Dean Martin) che sembra essere stato scritto, sebbene in catalano, per la fruizione di un ipotetico pubblico napoletano (ricordando l'affinità fra due culture dalle indubbie legature culturali) e proponendo un unicum antropologico, umano e culturale che ognuno percepisce come autentico, ed adatto a questi nuovi deboli, quei soliti ignoti che furono vecchi soggetti border line del neorealismo e che si ritrovano qui di nuovo (sebbene in un finale che lascia però l'unica perplessità legata ad un testo indulgente) alla ricerca del difficile riscatto.