Come realizzare, a partire da un cupo romanziere russo, un’opera profonda, curata, colta eppure viva, stratificata, non solo estetica ma fondata su contenuti forti, mantenendo la leggerezza di un allegro e scomposto baraccone?
Tutto questo è I fratelli Karamazov di Cesar Brie, realizzato dal regista argentino, grazie al sostegno produttivo dell’Emilia Romagna Teatro e con un cast artistico di giovani attori, come esito del laboratorio “Cantiere Brie”, il percorso di professionalizzazione diretto da lui l’anno scorso.
Se drammaturgia è inventarsi le regole del gioco, il gioco di questo autore è tale che, nella sua complessità, può essere utile fissare alcune parole chiave.
1. La Soglia. Mimesi e narrazione si alternano a scoprire la trama fitta del romanzo dei fratelli Karamazov; Come da note di regia, gli attori entrano ed escono dai due registri: è quel “passaggio di soglia” che - scrive Brie - “rilassa gli attori”. Questo passaggio genera talvolta una qualità di presenza mista, che non è del tutto straniata ma nemmeno immedesimata: è raccontare e nello stesso tempo vivere. Qualità che, oltre ad arricchire il lavoro dei giovani interpreti, aiuta nell’orchestrazione di una vicenda complessa, passibile di accelerazioni, rallentamenti, excursus necessari alla presentazione dei personaggi. La variazione di registro, oltre ad avere una funzione narrativa, è anche un elemento di attrazione rispetto al pubblico e gioca un ruolo notevole rispetto alla leggerezza del lavoro nel suo insieme.
Una variazione ulteriore si ha quando gli attori, nel dialogo o nel racconto, agiscono come burattini, rafforzando la chiave epico - favolistica del lavoro. Questo divertito utilizzo di registri differenti nella recitazione ci riporta ad un'altra parola chiave:
2. La Contaminazione. La stratificazione del lavoro di Cesar Brie sarebbe il divertimento di un appassionato di filologia teatrale: tante sono le componenti di linguaggio che questo ricchissimo autore utilizza e padroneggia. Dall’essenza laboratoriale dell’Odin Teatret al teatro di parola, ancora al teatro di figura (o è riferimento kantoriano?), con sensibilità sempre viva rispetto al testo e cura e rispetto alla parola detta. L’eterogeneità del linguaggio riflette quella del romanzo di Dostoevskij. La cifra scenografica conferma la sensibilità della regia per
3. Le Relazioni Spaziali Con Valore Significante. Le lunghissime briglie con cui Dimitri frusta il cavallo sono un riverbero sintetico efficace della sua condizione esistenziale, oltre a generare un’immagine forte di per sé. Come già nell’Odissea, alcuni elementi scenografici si prestano anche a generare una dimensione simbolica, che vive insieme con quella concreta e non lascia predominare l’estetica sulla
4. Sostanza narrativa. Al di là dell’intensa storia dostoevskijana, c’è un inciso, peraltro breve e marginale rispetto alla vicenda principale della famiglia Karamazov, che Brie mette in rilievo, e che inaspettatamente per lo spettatore, assume la forza delle immagini archetipiche. Quando, nella seconda parte, il ragazzo povero difende il padre ingiustamente maltrattato, questo episodio, per niente sovraccaricato né nella durata né nell’interpretazione, ma davvero autentico e diretto, conquista il centro della parabola drammaturgica, e con questa una forza centrifuga che illumina con la sua chiave di lettura tutta la vicenda.
Perché? Può essere interessante chiedersi se questo frammento, che risolto diversamente avrebbe rischiato l’eccesso di sentimentalismo, non abbia a che fare con l’intuizione principale della regia rispetto al testo ed all’autore. E in particolare, con quel senso originale della sofferenza come valore, non solo edificante, che appartiene a Dostoevskij: o meglio, quel senso umano di pietà ed ammirazione, che l’autore associa in modo non manifesto agli atti di nobiltà dei più deboli. Per citare Flaiano, “Come un vero intellettuale: egoista ma pieno di pietà.".