Il Massimo di Palermo ripropone “L’italiana in Algeri” l’apprezzato allestimento del capolavoro rossiniano firmato nel 2000 da Maurizio Scaparro.
Trafori, trasparenze, ambiguità
Il compianto Emanuele Luzzati, tanto per cambiare, aveva visto giusto. Grazie alla sua intuizione semplice ed efficace, la vicenda di Isabella, Lindoro e Mustafà si dipana in una dimensione lieve, scandita in prospettiva da pannelli mobili che separano lasciando intravedere, delimitano ma non chiudono, distinguono senza impedire lo scambio e la comunicazione.
Il gioco sottile degli intarsi, che si possono leggere come felici stilizzazioni di moduli tipici dell’arte decorativa islamica, si attaglia perfettamente all’eterotopia dell’harem e ne riassume la segretezza porosa, l’alterità perennemente assediata dal tarlo edace della curiosità. Interno ed esterno, vicino e lontano, pubblico e privato, Europa e Oriente non sono dunque antinomie irriducibili, bensì poli di una dialettica fatta di simmetrie e di rispecchiamenti.
In questo spazio aereo che si protende con una certa solennità verso lo spettatore in virtù dell’inclinazione del piano di calpestio, la regia di Maurizio Scaparro, ripresa da Orlando Forioso, muove i singoli e le masse secondo traiettorie prevedibili e codici cinetici convenzionali. Gratuiti appaiono alcuni lazzi che esplicitano ciò che andrebbe lasciato alla fantasia dello spettatore, e un po’ datate risultano le soluzioni meccanico-marionettistiche adottate nei grandi ensembles. Ad aggiungere opportunamente un tocco fiabesco all’insieme provvedono i deliziosi costumi di Santuzza Calì, che si adeguano all’ambientazione ‘algerina’ senza scadere nel decorativismo.
Isabella, o Della seduzione
La grande protagonista dell’opera rossiniana e della performance palermitana è Isabella. Marianna Pizzolato fornisce un’apprezzabilissima (e apprezzata) versione della scaltra e maliziosa italiana, nella quale una vocalità elegante, fluida e ricca di sfumature si unisce a una spigliata vivacità scenica; sguardi e moine, vezzi e gesti imperiosi risultano dosati con gusto e intelligenza, senza effetti caricaturali e senza derive stucchevoli.
Al suo fianco non sfigura il giovane tenore catanese Pietro Adaini, dotato di bel timbro, volume ampio e buon controllo dell’intonazione, e capace perciò di affrontare con disinvoltura anche i passaggi più fioriti. Simone Alaimo dà fondo a tutte le risorse del suo istrionismo per puntellare un’interpretazione vocalmente assai sfocata, che non rende giustizia all’importanza drammaturgica di Mustafà. Tra gli altri interpreti si segnalano Maria Francesca Mazzara, generosa e precisa nel ruolo di Elvira, e Vincenzo Taormina, brioso nella parte di Taddeo.
Gabriele Ferro dirige con esattezza un po’ squadrata, governando a dovere le sonorità dell’orchestra ma non sempre intercettando le intenzioni dei cantanti. Nell’insieme si ha l’impressione che la musica sia animata da un entusiasmo di superficie e percorsa da un’elettricità più dovuta che sentita. Si lascia il teatro vagamente inappagati per un Rossini còlto (e reso) a sprazzi.