Lirica
LA BOHèME

Bohème in bianco e nero

Bohème in bianco e nero

Curioso come nascano certe cose. Racconta Giuseppe Adami nel suo "Il romanzo della vita di Puccini", che avendo il compositore già in mente la melodia del famoso valzer di Musetta per il secondo quadro de "La bohéme", ne chiedesse le parole al refrattario orecchio musicale di Giuseppe Giacosa, passeggiando su e giù per il suo studio milanese di Foro Bonaparte. E per non sbagliare, ne proponeva a modo suo la scansione: «Guarda, tu devi farmi dei versi che corrispondano a queste parole: Cocoricò, cocoricò, bistecca». Suggerimento assai comico, ma efficace. Il poeta allibisce, freme, geme, ricorda Adami; ma all'indomani i versi di Musetta ("Quando me'n vo, quando me'n vo, soletta") son belli e pronti, calati sul metro un po' irregolare che Puccini voleva. Dal che si deduce che se i librettisti  ufficiali - Giacosa appunto, e Luigi Illica - mostrarono di sapersi destreggiare abilmente nel portare sulla scene un romanzo ricco di particolari ed articolato come "Scénes de la vie de bohéme" del Murgier, è altrettanto innegabile che da parte sua anche Puccini svolgesse di fatto - seguendo il suo pressoché infallibile intuito drammaturgico, e la sua innata musicalità - un ruolo di scrittore aggiunto.
Opera 'corale' quanto poche per il confrontarsi continuo dei sei personaggi principali, "La bohéme" funziona bene in teatro quando tutti - al di là delle necessarie qualità vocali - sanno interagire con grande affiatamento, come in questa riuscita messinscena del Teatro Sociale di Rovigo che toccherà poi Padova in dicembre, Savona in giugno 2012, Bergamo nell'ottobre seguente. Il merito è nella felice scelta degli interpreti, tutti ben preparati da Stefano Romani per la parte musicale e da Ivan Stefanutti nella gestualità; ma è merito anche di una visione scenica felicissima, concepita qualche anno fa da Stefanutti stesso - oltre alla regia, pure scene e costumi portano la sua firma - e che dopo la sua primissima apparizione all'Opera Festival di Bassano ed al Verdi di Padova nel 2006, ha stabilito da allora un record di riallestimenti - una quindicina con questo, ci ha detto - interessando una grande quantità di sale italiane e non solo.
L'impianto generale rinvia, con un'opzione d'ambiente indovinata, alla Parigi degli Anni Trenta-Quaranta, ispirandosi volutamente Stefanutti ai film in bianco e nero di Marcel Carnè, Jean Vigo, René Clair, come pure alle foto di miti come Robert Doisneau e Brassaï. Nero e bianco, quindi, e tutto un gradiente di grigi declinati in ogni tonalità, con scenografie leggere ed evocative di una città invernale e melanconica. Un impianto impreziosito da costumi accurati persino per le comparse, e da una ricchezza di particolari incredibile, frutto di una attenzione registica maniacale che non coinvolge solo i personaggi principali, chiamati ad una declamazione estremamente naturale - cantare come respirare - ma anche i tanti personaggi di contorno, specie nell'animatissima Parigi 'en plein air' del secondo quadro; situazione ben nota che non ci fa trovare una folla adunatasi per caso, come sovente capita di vedere, bensì la vetrina di tanti singoli frammenti di vita: le coppiette litigiose, venditori di strada, prosperose prostitute che attirano i clienti, marinai un po' brilli in libera uscita, mamme arrabbiate e figli capricciosi, e via dicendo.
Javier Tomé Fernàndez - tenore basco apprezzato vincitore l'anno scorso del Concorso Toti Del Monte come Nemorino de "L'elisir d'amore" - alle prese con quello di Rodolfo sa convincere ancor di più, perché possiede bella voce fresca ed omogenea in tutta la gamma, sa fraseggiare con buona grazia ed interpretare con abbandono sentimentale un ruolo così importante. Accanto a lui, come Mimì il soprano ungherese Andrea Rost sa come esibire la giusta delicatezza emotiva, tenera e melanconica, del fragile personaggio; e poi colora e sfuma bene il suono, con molta intelligenza, anche se il medium - in una tessitura quasi sempre centrale - non pare particolarmente caldo. Andrea Concetti tratteggia Marcello con buona persuasione vocale e scenica, simpatico nella figura e nello slancio giovanilistico; il soprano romeno Mihaela Marcu delinea una Musetta raffinata e deliziosa, con un tocco di civettuola malizia; Donato Di Gioia direi sia uno Schaunard praticamente perfetto; Alessandro Guerzoni un Colline un po' impacciato, e anodino nel lamentare la perdita della vecchia zimarra. Per non so quale criterio, le figure di Benoît ed Alcindoro sono state consegnate non ad un baritono, ma ad un tenore; buon per noi che la verve e il gran mestiere di Max René Cosotti hanno in parte redento la balzana scelta.
Abbiamo accennato all'importante ruolo ricoperto da Stefano Romani come concertatore: il maestro veneto si è mostrato alla testa della Filarmonia Veneta guida vigile e sensibile, offrendo allo spettatore un commento sonoro esemplare e sempre pertinente: colorito nell'elemento comico e brillante, toccante nei momenti affettuosi e patetici, assai intenso e pregnante nelle scene di conversazione.
Buona prova del Coro Lirico Veneto e delle voci bianche dei Piccoli cantori di San Bartolo, diretti da Giorgio Mazzuccato. L'altra compagnia allineava Gioia Crepaldi (Mimì), Giordano Lucà (Rodolfo), Novella Bassano (Musetta), Giuseppe Nicodemo (Colline).
Prossime repliche dello spettacolo in dicembre, al Teatro Verdi di Padova, nei giorni 21, 23, 27 e 29 dicembre.

Visto il
al Sociale di Rovigo (RO)