Rappresentare Rodolfo, Marcello e compagni de La bohème nella solita gelida soffitta tra i tetti innevati di Parigi? Non sia mai. Cacciamoli in un immenso capannone industriale – questa l'idea offerta dagli altissimi muraglioni che resteranno a far da quinte sino alla fine – illuminato da spioventi ed abbaglianti luci d'ogni colore. A destra un enorme cumulo di candide cornici – Marcello però pittura con bombolette spray, da bravo graffitaro - ed a sinistra una montagna di cartafacci di Rodolfo: e tanto per restare aggiornati, vestiamo i nostri bohèmiens con jeans stracciati e giubbotti di pelle. Pazienza poi se Mimì, al suo ingresso in leggins di pelle attillatissimi e scarpe dai tacchi vertiginosi, sembra ahimé una battona dell'Est; e vista così, figurarsi che gliene può fregare della cuffietta rosa e del manicotto di pelliccia. Descrivere la livida alba alla Barriera d'Enfer con la solita cancellata, di qui le guardie, di là spazzini e contadine con ceste di burro e cacio, polli e uova? Per carità, non è cosa! Meglio un grande spazio vuoto immerso in una confusa caligine, dove far vagabondare i personaggi con movenze da zombie. Raffigurare il solito Quartiere Latino, con le sue colorite botteghe, i venditori ambulanti, le vie affollate di gente d'ogni età? Che noia! Meglio immaginare un'affollatissima discoteca – si chiama comunque Momus, ce lo dice l'enorme insegna lampeggiante - con tanto di cubiste e lap dancers. Un bollente calderone umano, dove buttare dentro tutti, proprio tutti i personaggi. Un momento: e Parpignol con i suoi balocchi, e lo stuolo dei chiassosi bambini, non dovrebbero stare in un luogo di equivoco svago notturno. E via, al bando la logica! Vestiamoli con casacche gialle da posteggiatori (o da distributori di volantini, gialle e fosforescenti comunque sono) e non facciamo tante storie.
Non mostra alcuna intenzione insomma Paolo Giani Cei – regista, scenografo e costumista, cioè unico artefice di questa brutta e squallida Bohème padovana - di tener conto di quello che suggeriscono i dialoghi, né delle puntigliose didascalie del libretto. Né tanto meno pare che, con il suo distacco emotivo, gli interessi di restituire al pubblico del Teatro Verdi, se non in minimissima misura - visto il contorno, la luminosa luna che si dilata sullo sfondo tra «Che gelida manina» e «Mi chiamano Mimì» appare quasi risibile - il fascino sottile della nostalgia della gioventù, e le poetiche, affettuose atmosfere del capolavoro pucciniano: il quale rimane affossato in un indigeribile porridge visivo, che in certi rari momenti decolla solo per una felice intuizione recitativa affidata agli interpreti.
Spiace scrivere questo, perché musicalmente questa Bohème girava abbastanza bene, a cominciare dalla conveniente direzione musicale del giovane maestro brasiliano Eduardo Strausser, che presiedeva dal podio dell'Orchestra Filarmonia Veneta: direzione tenuta leggera, sensata nella scelta dei tempi e delle dinamiche, attenta al contrasto dei colori, molto espressiva nelle sfumature. Ma, quel che più conta, direzione dallo spedito ritmo narrativo e pervasa da bella teatralità, in grado di restituire all'ascolto tutta la tenue delicatezza della partitura pucciniana, senza incorrere mai in svenevolezze. Questo, pur nei limiti d'avere sotto di sé una compagine non di primo rango, ed impegnata in questi giorni in un vero tour de force di concerti.
Sostituendo Giorgio Bellugi, che alla prima ha dovuto cedere le armi ad una micidiale bronchite terminando la recita pressoché afono, Giordano Lucà offre al pubblico del Verdi una performance nel complesso ben riuscita, per l'indubbio impegno profuso nel infondere credibilità alla figura di Rodolfo. Bello di natura il suo strumento, sebbene non potente ed espansivo come si vorrebbe; e qualche genericità nell'accento, ed una certa asciuttezza del fraseggio andrebbero finalmente emendate. Nè mi pare ancora risolto del tutto – problemi di respiro e di sostegno dei fiati - quel fastidioso vibrato che pare affliggerne a tratti l'emissione, sin dai primi esordi.
Il soprano lettone Maija Kovalesvka è Mimì – ruolo debuttato giusto dieci anni fa al Metropolitan di New York sotto la bacchetta di Domingo – e bisogna dire che, a dispetto d'una voce di qualità e grana non clamorose, questa parte se la gioca benissimo grazie ad una amministrazione molto accorta ed intelligente delle proprie risorse, e tramite una recitazione calibrata ed intensa. Fattori che le permettono, tanto per dire, di figurare benissimo in «Mi chiamano Mimì» ma ancor meglio in «D'onde lieta uscì», pagine non facili – ma quando mai Puccini è facile? - in bilico come sono tra volute melodiche e momenti di piana narrazione. Mihaela Marcu è la Musetta che vorremmo sempre incontrare, visto che la cantante romena sa riscattare questa figura dal predominio delle solite vocette da sopranino, per la corposità del registro centrale ed il velluto dell'emissione. In scena sa mostrarsi non solo musicalissima, ma pure briosa ed ammiccante nella sua frizzante silhouette di civetta, senza tuttavia eccedere in moine o in stolide mossette. Ed eccola quindi perfetta nel languido abbandono del valzerino «Quando men vo soletta», che dalle sue mani esce tenero e sensuale al tempo stesso, ma anche peperina nei bisticci amorosi con il suo Marcello. Col quale, peraltro, in questa occasione vara una coppia ben assortita: perché il giovane pittore del Mar Rosso viene reso molto efficacemente da Gezim Myshketa, al quale riesce facile costruire una figura colorita, spontanea e fascinosa, muovendosi nel suo personaggio con innata naturalezza. E' con queste premesse che il baritono albanese può esibire buona disinvoltura d'attore nei passi di conversazione, una certa generosità nel volume di voce, indubbia piacevolezza nell'espansione melodica.
Colline sta nelle mani di Gabriele Sagona, basso solido e dal bel colore, che risolve molto bene – si merita un applauso a scena aperta – la sua «Vecchia zimarra». Completa bene il quartetto di spiantati bohèmiens David Giulianini, uno Schaunard assai persuasivo. A Davide Pellissero e Christian Starinieri toccano le due figure comiche dell'opera, cioè al primo Benoît ed al secondo Alcindoro: comprimari eccellenti in entrambi i casi, capaci d'evitare ogni facile macchiettismo. Vorrei sapere tuttavia perché il libretto di sala riporta, per quest'ultimo, il nome di Iano Selli. Completano efficacemente il cast il Parpignol di Luca Favaron, ed i doganieri di Luca Bauce e Riccardo Ambrosi. Apprezzabili nel complesso le prestazioni del Coro Lirico Veneto guidato da Sergio Stefano Lovato, e del Coro Voci Bianche Cesare Pollini preparato da Marina Malavasi.
Recita di San Silvestro in un Verdi affollato in ogni ordine di posti, con un pubblico generoso di applausi. E brindisi finale per tutti - pubblico ed artisti - al nuovo anno. Sperando sia migliore di quello che l'ha preceduto.
(foto di Giuliano Ghiraldini)