È quasi inevitabile cercare un confronto con “La Ciociara” interpretata dalla Loren nel film di De Sica datato 1960, eppure lo spettatore, in questo caso, deve guardare questa trasposizione teatrale con occhi diversi: “La Ciociara” di Annibale Ruccello, tratto dall’omonimo romanzo di Moravia, portata in scena da Roberta Torre e prodotto dal Teatro Bellini di Napoli, è qualcosa di nuovo. È una contaminazione costante con il cinema, con la fotografia, con la musica, ma anche con la storia e con i sentimenti.
Un tappeto di foglie secche limita il palcoscenico precludendo l’uso del proscenio agli attori costretti in una sorta di gabbia circoscritta da due schermi: quello anteriore trasparente permette la proiezione di immagini “interiori”, stati d’animo, evocati da foglie, pioggia, nuvole o fumo e quello posteriore, sfruttato per le proiezioni di video ed immagini, sottolinea e completa in maniera incisiva diverse scene della pièce.
Sulle note di “Musetto” di Domenico Modugno vengono introdotti i due personaggi principali: Cesira (Donatella Finocchiaro) e Rosetta (Martina Galletta). Sono gli anni ‘50 e le due donne, madre e figlia, stanno discutendo senza mezzi toni per l’acquisto di un’automobile.
Il testo di Ruccello indaga per scoprire come la guerra sia riuscita a cambiare le persone e la scelta registica dello spettacolo ha voluto sottolineare questo aspetto. Attraverso dialoghi crudi segnati da una profonda incomunicabilità le due donne fanno trasparire le cicatrici lasciate loro addosso dalla fame, dalla violenza e dalla delusione. Cesira e Rosetta, due ciociare, perdono la loro autenticità e la loro cultura originaria durante la guerra e diventano “deportate”, definizione che Ruccello stesso amava usare per descrivere molti dei suoi personaggi.
Quello che resta è vano e ormai divorato dal consumismo; non c’è più spazio per il futuro e quasi neanche per i ricordi incarnati nella figura del fantasma di Michele (Daniele Russo), giovane dottore antifascista innamorato di Cesira, ucciso dai nazisti in fuga, unica figura realmente positiva tra le tante che si susseguono sul palco.
La storia comincia dagli anni ‘50 e prosegue in flashback: la decisione di Cesira di lasciare Roma sottoposta ai bombardamenti, per tornare in campagna, in Ciociaria, la convinzione che con i soldi si possa comprare tutto e la definitiva scoperta dell’amara realtà della guerra che altro non porta che a privazioni, violenza e morte.
È questo il risultato di una contaminazione totale: il passaggio da una vita contadina considerata autentica a quella piccolo borghese corrotta dall’avidità, il passaggio dalla fede alla negazione di ogni credo se non quello del denaro.
La carica emotiva con cui gli attori interpetano i loro ruoli è forte e viene costantemente accentuata e condotta al limite dall’uso delle proiezioni o della musica che più che da accompagnamento viene usata come una sorta di colonna sonora cinematografica.
Il limite tra teatro e cinema in questo spettacolo è sottile e invita al connubio dei due generi ora non più così diversi e distanti.