Lirica
LA CLEMENZA DI TITO

Torino, teatro Regio, “La cle…

Torino, teatro Regio, “La cle…
Torino, teatro Regio, “La clemenza di Tito” di Wolfgang Amadeus Mozart TITO SECONDO VICK Rappresentata per la prima volta nel settembre 1791 a Praga, in occasione dell’incoronazione di Leopoldo II (che pure non manifestava alcun interesse per la musica) a re di Boemia, “La clemenza di Tito” è arrivata al Regio per la prima volta. In questa opera particolarmente Mozart non tende ad esasperare i contrasti, bensì a sfaccettarli, a rivelarne le intime contraddizioni, cosicché lo stesso finale non suona del tutto liberatorio e trionfale: il compositore mette definitivamente da parte quel vocabolario della “teoria degli affetti” declinato nell’appena conclusasi trilogia dapontiana a vantaggio di una più profonda e frammentata analisi dell’anima. Dietro l’apparente fragilità drammaturgica si cela una serie di sentimenti (amicizia indissolubile, amore deluso, amicizia tradita, amore contrastato, brama di potere) tanto che l’incendio del Campidoglio appare come il culmine della degenerazione di drammi individuali e collettivi. Come il totalitarismo. Infatti Graham Vick ambienta la vicenda agli albori del fascismo, nella Roma degli anni Venti. Molto raffinata la scenografia, un salone ovale in cui troneggiano eleganti poltrone bianche dalle linee déco, dalle pareti a boiserie con intarsiate vedute dell’antica Roma, sormontato da una cupola-lucernario inclinata che cita, sempre in chiave déco, quella del Pantheon. Sullo sfondo una porta-finestra ed una vetrata lunga e stretta che diffonde una bella luce naturale e dalla quale si intravede un esterno urbano stile Piacentini, un edificio colonnato preceduto da gradini che si partono da una piazza stretta, teatro di parate, ronde armate, sommosse, tumulti, incendi (splendidi scene e costumi di Jon Morrell e le luci di Giuseppe Di Iorio). La scelta di ambientare la vicenda durante il fascismo, momento buio della nostra storia recente, e il vedere poveri ebrei maltrattati dalle camicie nere generano un senso di disagio e conferiscono alla figura di Tito una certa ambiguità, peraltro accentuata da Filianoti che rende un Tito sfuggente, lascivo e malinconico, un po’ viscido e compiaciuto, narciso e debole, la cui clemenza appare dettata da motivi personalistici più che pubblici. Infatti l’imperatore accetta subito la rinuncia a lui di Sestilia perché è “preso” da Sesto e una moglie gli serve solo per la vita “ufficiale”. La clemenza diventa così non l’astratta parabola su amicizia e onore ma la storia di una attrazione omosessuale: Tito cede la poltrona a Sesto davanti al Senato e il luogo duetto del secondo atto viene cantato fra abbracci e carezze in due poltrone affrontate in proscenio sullo sfondo del salone svuotato. È questo il momento decisivo del racconto di Vick, il momento più riuscito: Tito non è più il fascinoso imbrillantinato in smoking bianco né il militare in severa uniforme, ma un uomo fiaccato dai sentimenti, in balia del cuore e dei suoi moti. Tito è il dittatore in fieri in un ambiente oppressivo dominato dall’intrigo, in cui congiure, tradimenti e voltafaccia sono all’ordine del giorno. Non solo Tito, ma anche gli altri, Vitellia, Sesto, sono in balìa delle loro passioni, agitati da sentimenti contrastanti e non proprio nobili: tutti guardano alla soddisfazione del proprio impulso immediato, salvo poi fare opera di pentimento. Nessuno è buono ma neanche cattivo, tutti hanno tante sfumature e Vick esalta l’umanità di Mozart in quest’opera da molti giudicata “fredda e neoclassica”. Il fascismo voleva ricreare una “nuova Roma” (chiunque visiti i siti archeologici della Tripolitania se ne rende conto immediatamente) e l’ambientazione di Vick è credibile e in alcuni punti particolarmente efficace, quando il popolo reca in mano le foto di Tito (culto dell’immagine) oppure i pestaggi e le angherie ai prigionieri bendati. Uno dei meriti della produzione è avere risolto ottimamente i recitativi, uno dei punti critici dell’opera, che risultano dinamici e ricchi di sfaccettature, interpretati come fossero dialoghi di una pièce teatrale in cui la parola acquista peso e spessore e la narrazione drammaturgia coinvolgente. Infatti il cast schiera ottimi cantanti-attori, che coniugano gesti scenici curatissimi e molto teatrali e vocalità con un fraseggio di grande tensione espressiva. Nel ruolo del protagonista Giuseppe Filianoti ha timbro bellissimo e voce corposa e luminosa, usata in modo ottimale. Efficace nel rappresentare luci ed ombre dell’uomo del potere assoluto, altezzoso ed elegante in smoking bianco, che alza il sopracciglio con aria di sufficienza, legato in modo indissolubile all’amico Sesto di cui non accetta il tradimento. Carmela Remigio è una Vitellia plasmata in modo iconico, un personaggio volutamente eccessivo, contraddittorio e conturbante, una famme fatale che sembra uscita da un film muto o da un figurino di Ertè e che giustifica la cieca passione di Sesto e il corso degli eventi: una Vitellia sensuale ed inquieta. La Remigio ha voce pastosa che profuma di sensualità: la tessitura è particolarmente scomoda e se il registro superiore è luminoso e quello centrale pieno e vellutato, si ravvisa qualche incertezza nelle incursioni nel grave. Monica Bacelli ha timbro scurissimo e particolare, la voce è estremamente duttile, ottima nel fraseggio, creando una figura un po’ dandy inglese col ciuffo biondo, riuscita e coinvolgente, di grande intensità, un Sesto ambizioso e fragile che attrae Tito. La perfetta aderenza al ruolo en travesti contribuisce alla spontaneità del personaggio colto nelle sue umane debolezza e disperazione ed il risultato è impeccabile. Rachel Harnisch è una Servilia eterea e raffinata che canta con freschezza la parte di una giovane innamorata, anche se la voce, rispetto alle altre, non desta particolare impressione. Invece da segnalare l’ottima Daniela Pini per l’efficace resa del ruolo en travesti di Annio con voce morbida, pulitissima e sicura, piena e ariosa, di una limpidezza e di una freschezza che hanno molto colpito. Simòn Orfila è un Publio discreto dal canto preciso. La direzione di Roberto Abbado, giustamente equilibrata ed in ottima sintonia con il palcoscenico, ha sottolineato le trasparenze e le leggerezze neoclassiche della partitura, affrontata con scrupolo e tempi giusti, cadenzati secondo un ritmo interiore. Perfetti gli interventi degli strumenti solisti nel dialogo coi cantanti, una illuministica asciuttezza ben combinata con un fraseggio che racconta sentimenti vissuti con animo già pienamente romantico. L’esecuzione è risultata particolarmente corretta (e così maggiormente fedele all’originale) grazie all’uso di strumenti antichi, archetti di fattura classica, timpani barocchi, trombe e corni naturali (senza pistoni) che hanno diffuso suoni di grande chiarezza. Ottimo il coro preparato da Claudio Marino Moretti sia nella parte vocale che nella difficile presenza attoriale. Teatro pieno, il pubblico ha applaudito con calore. Nei palchi numerosissimi bambini, silenziosi, attenti e interessati: ottimo segnale. Visto a Torino, teatro Regio, il 21 maggio 2008 FRANCESCO RAPACCIONI con la collaborazione di Ilaria Bellini
Visto il
al Regio di Torino (TO)