Uno Zeno Cosini riletto in chiave del tutto contemporanea, quello portato in scena dagli attori della compagnia milanese Oyes diretti da Stefano Cordella e Noemi Radice.
La riduzione con adattamento del celebre romanzo ormai centenario di Italo Svevo, per precisione del triestino Aron Hector Schmitz come si ricorda sul pannello in evidenza sul fondale, è affidata al lavorio sul testo di Cordella, Dario Merlini e Noemi Radice, con la consulenza di Simone Faloppa, che restituiscono uno di grandi personaggi letterari del Novecento con accentuata la dimensione di “inetto” che lo caratterizza.
Sul palco gli attori hanno ripercorso alcune vicende tratte dai capitoli del romanzo in abiti d’epoca e collocati in un’ambientazione museale, dando vita a una sorta di teatro nel teatro in cui è il linguaggio del presente a farla da padrone.
I protagonisti del romanzo in un angolo piatto del presente
Zeno (Fabio Zulli) nello spettacolo è un individuo senza macchia né lode, pieno di paure e del tutto “senza qualità”. È condannato a rivivere se stesso e le vicende che sono note a beneficio di un unico spettatore anche un po’ distratto, una sorta di viaggiatore nel tempo, in un museo dei nostri giorni.
Le scene curate da Stefano Zullo introducono in una sala dalle pareti scure con un’illuminazione in perenne corto circuito, dove una lampada di quelle che indicano l’uscita di sicurezza emette un ronzio continuo e a tratti accentuato, a evocare quasi un elettrochoc. Scende anche un lampadario luna piena a un certo punto, a lei nel finale guarda Zeno, voltate le spalle alla platea, mentre suonano le note di una canzone dal ritornello struggente: “I’m looking for a kiss”.
Una comicità quasi da gag attraversa diversi momenti della rappresentazione, dove i personaggi comprimari, le sorelle Ada e Augusta (le brave Francesca Gemma e Livia Castiglioni) e a tratti l’amico nemico Guido, nei suoi panni Francesco Meola, con il dottor S. (Dario Merlini) rubano spesso — da copione — la scena al protagonista.
C’è posto anche per rivendicazioni e risentimenti del tutto post-romanzo in dialoghi e monologhi, che riprendono sì letteralmente parti centrali del testo, ma spesso attualizzano, chiamando in causa nel finale con toni da predica anche il tema dell’ambiente ferito. A essere ridicolizzato è anche il celebre dottor S., Sigmund Freud, reso nell'aspetto quasi uno Zeno allo specchio. Con lui l’attitudine umana a pensare che esista una chiave di lettura per ogni nostro comportamento senza fare i conti con gli scherzi del destino.
Il suicidio di Guido perde ogni drammaticità, avvenuto a opera del “bum” di una pistola di legno invece che di un farmaco e di tanta sfortuna. Il pacchetto di sigarette da cui trarre quella che è mai per sempre l’ultima ha l’aspetto di quelli che circolano oggigiorno, e gli attori scherzano sulle immagini truci che ricordano che il fumo nuoce gravemente alla salute.
Tanto fumo in scena, fumogeni compresi, sottolinea l’aspetto davvero invecchiato del romanzo, scritto quando non si era a conoscenza dei danni reali provocati dal fumo da tabacco; meno invecchiati sono i temi del malessere e delle dipendenze, che qui passano in sottotraccia.
Vorrei incontrarti anche fra altri cent’anni, Zeno
Gianluca Agostini, che ha curato le musiche, ha scelto come sigla dello spettacolo Vorrei incontrarti fra cent’anni, una canzone di Ron. La cifra del taglio drammaturgico è contenuta in questo semplice riferimento: l’incontro con Zeno Cosini, con il personaggio in cui Svevo-Schmitz ha saputo incarnare il senso del limite dell’essere umano, avviene a cent’anni di distanza tolto ogni accento all’introspezione, allo scavo frenetico e ossessivo che tanto era piaciuto a Joyce.
Il presente fa perdere di vista prospettive e profondità e in preda a un continuo ronzio da reset tende all’appiattimento. L’esito, messo in rilievo senza tanti chiaroscuri l’elemento comico, seppure interessante e ben interpretato risulta un po’ fumoso.