Testo tra i più rappresentativi dell’autore messinese, il primo non scritto in vernacolo, “La festa” è arrivato alla Comédie Française nel 2007.
Anche in questo caso, però, l'italiano è pastiche linguistico declinato nei tempi e nei suoni del sud, sia nella costruzione della frase, sia nella cadenza impressa ai termini, così il sapore di Ciprì e Maresco si uniscono e si contaminano con la lezione di Beckett: dialoghi brevissimi, vaniloqui, giaculatorie a volte oltre il limite del sensato, frequenti ripetizioni e variazioni sul tema.
Lo spettacolo è un testo deflagrante e tragicomico, esplosivo, fatto di parole e gesti, di silenzi annoiati e attese sporche, farcito di un tenore di vita sottoproletario che non è solo nelle mancate possibilità, ma anche nelle mancate parole, nelle inesistenti dolcezze, in quella violenza che permea ogni gesto.
La pièce racconta il tragico universo del disagio familiare, con una madre lastimante che ha perso qualsiasi femminilità, un marito pusillanime, “incapace perfino di russare”, protervo e alcolizzato, e un figlio imbelle, piegato su se stesso dall’incalzante mal di vivere.
Padre, madre e figlio trasformano un giorno particolare, quale il trigesimo anniversario di matrimonio, in un momento di plateale conflittualità domestica, partorito da un quotidiano asfittico. Nei dialoghi si susseguono toni da interrogatorio: ognuno tenta di fuggire alle proprie colpe, cercando invece di smascherare l’altro, si sviluppa un gioco crudele, sospeso, mai dichiarato, un gioco violento e morboso che si consuma nel silenzio.
La scena, metafisica e di dichiarata definizione segnica, interpretando alla perfezione la regia di Gianfelice Imparato, regia smaccatamente antinaturalistica, scevra da qualsiasi banale psicologismo soverchio, restituisce la precarietà delle dinamiche relazionali grazie ad un improbabile pavimento inclinato, pavimento da cui si levano pareti che pendono sghembe, come se un sisma avesse scosso pericolosamente l’apparente ordinaria quiete di un interno borghese che cerca, nonostante tutto, di difendere il proprio fragile equilibrio ricorrendo all’ausilio di sbarre che spranghino vanamente ogni varco, ogni porta.
Un lavoro di eccezionale potenza espressiva e di grande efficacia comunicativa, lontano da qualsiasi concessione alla leziosa ricerca di orpelli, un’operazione di scabra nettezza performativa che non si dilunga inutilmente e si conficca nella carne, parola dopo parola, arrivando a tradurre nella lingua di Trinacria il senso dell’assurdo proprio dell’enigma esistenziale kafkian; in tale prospettiva, le parole vengono esplorate e riciclate in tutte le loro potenzialità semantiche: sono lame - affilate da lunga esperienza - con cui si affrontano e si sfregiano i tre personaggi in scena, sono veicolo di inganno per chi le pronuncia e per chi inerme le ascolta, sono schiodinate ossessive che nella reiterata insistenza della voce stringono la scena con tentacoli verbali, sono l’argine che dà un limite al gioco affinché non si giunga all’irreparabile rottura, affinché si possa l’indomani ricominciar da capo lo stesso folle rito.
Perché se è vero che “le famiglie felici sono tutte felici allo stesso modo, le famiglie infelici sono infelici in modi diversi” (Tolstoj).
Visto il
08-12-2009
al
Valle Occupato
di Roma
(RM)