L’universo appiccicoso e claustrofobico di Spiro Scimone prende vita nel breve e interessante lavoro La festa in un anonimo interno familiare, madre padre e figlio attori di una quotidianità ossessiva e minuta che si logora nel contrappunto di rapporti verbali sghembi e intimamente violenti; i quali non mirano infatti a comunicare, ma a prevaricare. La discendenza dal teatro di Pinter, e in parte da quello di Beckett, emerge abbastanza schiettamente nella scrittura: personaggi antieroici si annullano a vicenda entro un dialogare ostinatamente aggressivo e irrilevante, come involontari congegni di esistenze destituite di etica e di senso. Ma se in Pinter lo spazio della casa è pur sempre il rifugio ultimo dalle incognite del mondo, nel lavoro di Scimone al contrario il focolare domestico è eretto a sacrario dell’ostilità interpersonale, della piccola intolleranza abituale che degrada il vivere a ritualità meccanicistica e incolore.
Il titolo del lavoro proietta tutta la narrazione verso l’epilogo, e s’intende subito che la festa – la cena per l’anniversario di matrimonio dei protagonisti – sarà pura occasione per celebrare una volta in più la desolazione familiare. I personaggi dialogano a gran ritmo, ma gli enunciati s’incrociano allo snodo di sottili incongruenze logiche; la comunicazione viene regolarmente mancata, per equivoco, per depistaggio, o per volontà d’inganno. Ognuno dei protagonisti resiste nel proprio mondo di riferimento, che cerca d’imprimere aggressivamente sugli altri attraverso le risorse del ruolo familiare: il padre con l’autorità “gerarchica”, la madre dissimulando premura, il figlio riproducendo acriticamente il dispotismo del padre che disprezza. La scrittura drammaturgica rende abilmente l’ossessività dei comportamenti con figure stilistiche di ripetizione e di accumulazione.
La regia d’Imparato fa spiccare con un certo stile il carattere espressionista dell’interno familiare, imprimendo ai personaggi posture e gestualità lievemente deformi ma senza inciampare nell’ovvietà della caricatura. La madre, interpretata con perfetta misura dallo stesso Scimone, aderisce al suo ruolo con la modestia d’una posa garbata e immobile, le mani giunte con compostezza sul grembo; il padre si muove in una grottesca andatura da signorotto, ma i gesti e la voce, sapientemente controllati da un eccellente Francesco Sframeli, rivelano un’aggressività meccanica e inanimata; il figlio, affidato all’ottima esecuzione di Nicola Rignanese, esibisce la maschera animalesca del disadattamento e della noia; tutti e tre appaiono allo spettatore come immersi in un malessere sordo, irreversibile e inavvertito.
Non fa meraviglia che questo lavoro, scritto dieci anni fa, resista a distanza di tempo in tutta la sua efficacia drammaturgica, ciò che raramente accade alla scrittura teatrale contemporanea; sintomo questo, se vi fosse bisogno di prova ulteriore, della qualità complessiva che anima il progetto teatrale di Scimone e della sua compagnia.
Teatro Mercadante, sala ridotto - Napoli, 10 gennaio 2008
Visto il
al
Auditorium Comunale
di Polistena
(RC)