Nella sua vita come nel suo lavoro Ennio Flaiano si distinse soprattutto per l’umorismo e l’ironia, strumenti affilati e poetici con cui celava e svelava una sensibilità acuta e una profonda compartecipazione alle qualità e alle debolezze del proprio tempo e dei propri simili. In questo contesto La guerra spiegata ai poveri, creata nel 1946, in un momento delicatissimo della nostra storia, è un esempio perfetto delle idee e delle capacità di questo autore, sempre un poco messo da parte in ambito teatrale e letterario. La compagnia LABit, più volte consacrata alla memoria e alle opere flaianee, sceglie di dare inizio all’omaggio dedicato al centenario della nascita di Flaiano (”Cento anni in un mese”) proprio con questo particolare testo, drammaturgia dai tratti difficili che creò non pochi grattacapi durante la sua messa in scena, come ha raccontato anche Marco Maltauro, regista teatrale, nel corso della conferenza tenutasi qualche giorno fa, sempre al Teatro Due.
Gabriele Linari, regista rigoroso e sensibile, accetta senza tirarsi indietro la sfida: la “sua” Guerra diventa un girotondo di bambini viziati ed egoisti, desiderosi di giocare al Grande Gioco e di coinvolgervi quante più persone possibili, che siano d’accordo o meno, sfinendoli di luoghi ed ideologie comuni, di frasi trite e di mentalità sterili, in una coreografia di parole e di movimenti dagli innegabili tratti comici, ma amari. Intorno a un grande tavolo campeggiano notte e giorno queste grandi e dotte figure la cui postura e il cui eloquio con il passare dei minuti paiono assomigliare sempre più a un teatro di burattini: il Presidente (un Gabriele Linari dalla vena surreale e infantile, assecondato dal fisico nervoso e dalla parola sottile), il Generale (Andrea Vaccarella), il Ministro (Matteo Quinzi), il Perito Religioso (Sarah De Marchi), la Signora (Simona Forlani) passano così le ore, accanto a un piatto di pasticcini e una tazza di caffè, mentre al di là della porta si combatte e si muore, in un tempo sospeso e straniato, bizzarramente vicino alle visioni della società di Durrenmatt.
Eppure questo incastro meccanico e giocoso è turbato qua e là da voci ‘altre’, quelle del dubbio e della diversità. Dapprima è il turno del Giovane (Ottavia Nigris in un’ottima prova caratterizzata da spontaneità e precisione) che, nel suo scetticismo costante su cosa sia veramente la guerra, fino a quel finale assenso a partire, sia pure senza troppa convinzione, viene di fatto sacrificato non tanto ai proiettili del nemico, quanto alle stesse armi, inutili ma letali, dell’ideologia e dell’interesse. Sarà in definitiva il taciturno Usciere (Alessandro Porcu in un’interpretazione sobria ma efficace) a rispondere con tono spiccio e definitivo all’onirica digressione che il Presidente si concede con il suo Mappamondo di chapliniana memoria: la Guerra, lungi dal trasformarsi in canti di gloria e tintinnio di soldi sonanti, è diventata ormai solo un lungo e arido lavoro di enumerazione dei caduti, di fantasmi che ritornano, come dimostra il Giovane, che nel suo ultimo ingresso siederà accanto alla figura domata e immobilizzata della Signora, divenuta da sostenitrice entusiasta delle idee e dei progetti guerrafondai un mero simbolo della Vittoria, leggi Verità inutile, un Risultato posto in bella vista come una scultura, ma svuotato della sua essenza, della vita.
Un lavoro ambizioso, ripagato pienamente nella sua intenzione di ricondurre in un tempo e in luogo teatrali un testo che non lo è affatto: accanto alla disciplina e all’inventiva visionaria di Linari infatti si sono mossi all’unisono i suoi attori e i suoi tecnici, tra cui giova ricordare il coraggioso lavoro sulle luci eseguito da Flavio Tamburrini, in lotta costante con la difficile cornice del Teatro Due, per dare un colore definito alla Guerra flaianea, una penombra fasciata di caldi tagli ambrati che, se pure di quando in quando mancano il viso dei protagonisti, riescono comunque nell’intento di dare a drammaturgia e scenografia un’atmosfera simile a un quadro, non lontano da quel’evocativo gioco di candele visto sulle figure immobili e pallide di “Barry Lyndon”.
Visto il
12-01-2010
al
Due
di Roma
(RM)