Un attacco vaudevilliano contro l'ordine borghese, un'accusa che deve essere stata alla sua epoca invero deliziosamente terrificante, non troppo distante dal teatro dell'assurdo ed attraverso un linguaggio che capovolge l'orrore della volgarità, riversandolo non tanto sul brutale ed ancestrale ripudio di atti naturali legati alle funzioni intestinali, quanto piuttosto sulla negazione di un ordine nel mondo. È bene avere a mente quanto Feydeau riponeva in piéce come questa: quando con un abile “a me gli occhi”, sembra puntare il dito sull'aspetto esecrabile e fisicissimo di una (inconsistente) difficoltà legata alla stipsi di un bambino, in realtà sposta poi la visione e l'accento sull'impossibile accordo verbale, sociale e caratteriale fra marito e moglie, o sulla rottura crudele e paralizzante dei sogni simboleggiata da un'altra rottura, quella dei vasi da notte che si giura essere infrangibili.
E sotto i meccanismi comici talvolta grossolani, si affacciano echi del tempo come le questioni sociali emergenti di inizio secolo sulla gestione della famiglia e sull'educazione dei figli, come più in generale sullo status delle donne, ed in questo senso il bambino, Totò con il suo tener testa ai genitori, è l'archetipo del re-bambino.
L'attore e regista Arturo Cirillo, per ambientare La purga (On purge Bébé) di Georges Feydeau, si ispira alla scena surrealista de Il fantasma della libertà, il film di Luis Buñuel del 1974 in cui la conversazione da salotto avveniva pacificamente seduti su dei gabinetti disposti intorno al tavolo, in soggiorno, mentre per compiere un atto nascosto si andava in fondo a destra, rinchiudendosi per mangiare qualcosa come si addice a ciò che è sconveniente.
La storia racconta di un fabbricante di sanitari in cerca del colpo della vita, ovvero l'affare che gli aprirebbe le porte della ricchezza improvvisa: una fornitura di vasi da notte per l'esercito francese. Per raggiungere tale obiettivo, invita in casa sua un funzionario ministeriale cui è affidata la procedura, ma la giornata si rivela particolarmente infausta per le ragioni dell'ospitalità a causa di un interno familiare che non sembra nemmeno particolarmente raro, stante lo stile di vita e di matrimonio-medio dei protagonisti, insoddisfatti ed incapaci di gestirlo, ma che quel giorno vede una causa scatenante dall'indubbia efficacia, nella supposta costipazione del figlio Totò (qui un attore adulto), che li induce a ricercare il tipo di purga adatto allo scopo, cosa che coinvolge prima, e travolge dopo, ogni altro evento, mandando a monte l'incontro e terminando con la somministrazione della purga sia all'ospite, sia al padre, anziché al bambino viziato e prepotente.
Come anticipato, i temi si fanno strada oltre la facile risata, e nelle intenzioni del testo si ergono a critica di un sistema borghese di inizio secolo (dal quale l'autore fece di tutto, in vita, per dimostrare la sua distanza, fino all'autodistruzione), e si spingono a proporre il rifiuto della propria femminilità (la signora Chouilloux che si presenta completamente discinta all'ospite, una buona prova di Sabrina Scuccimarra, sfacciata, ipermammista ed insopportabile metà), come anche il rifiuto dell'autorità da parte del figlio (il necessariamente eccessivo, a questo punto, personaggio di Luciano Saltarelli), tutto nelle parole scelte per trovare battute caricaturali che forniscono la struttura di base, e fino ad una chiusura forse un po' avulsa dalla linea narrativa, nella quale trova spazio una solitudine che si materializza nel rapporto insano fra madre e figlio, rimasti stretti a consolarsi.
A parte la scelta dei gabinetti d'ordinanza come assise intorno alla quale far girare la normalità (ma voglio anche ricordare che nel film di Bunuel il senso più profondo era offerto anche dalla circostanza che quando ci si sedeva, lo si faceva in maniera radicale e funzionale, abbassandosi gonne, pantaloni e mutande, proprio come sarebbe lecito attendersi dal capovolgimento liberatorio che suggerisce la fuoriuscita dello sporco), occasionali modifiche al testo si trovano nella scelta di modificare i nomi per ottenere un facile effetto comico nella lingua italiana (Chouilloux/Cogliòcs) oppure perché forse non si ritiene che la platea sappia facilmente individuare le isole Ebridi (che qui vengono sostituite dalle Hawaii, nella scena iniziale in cui si manifesta l'ignoranza un po' ridicola ed un po' no dei protagonisti).
È soprattutto Cirillo a fornire una bella maschera complessiva al protagonista, molto interessante e più astratta rispetto a quella di Jean Poiret del film del 1961 o dello stesso Jacques Louvigny della precedente pellicola di Jean Renoir del 1931, e tuttavia non abbastanza lontana da giustificare una certa pretenziosità nel ricercare parentele con Roger Vitrac (...e quindi si suppone anche con il Théatre Alfred-Jarry?), come si legge dalle note di regia. È uno dei peccati che vengono scontati con il mancato arrivo di qualcosa di “altro”, che invece non è possibile percepire a sufficienza.