Non è facile mai fare teatro civile. Portare sulla scena fatti che la retorica e la cronaca hanno già reso noti nella loro dimensione più visibile. Su questo terreno scivoloso, La signora che guarda negli occhi riesce con efficacia.
La messa in scena vive di elementi molto semplici e di una drammaturgia centrata. Tre esperienze di estorsione, sintetizzate da tre personaggi diversi. Un telefono per ognuno, che permette loro di confessarci brandelli della loro quotidianità. E una metafora: la sedia sulla quale non si riesce più a star seduti, a rappresentare l’equilibrio perduto della persona taglieggiata, e la sua lotta per riconquistarlo.
La semplicità della scelta drammaturgica, l’essenzialità della scenografia, la chiarezza della struttura lasciano comprendere come questi elementi possano essere vissuti come dei supporti. Quello che informa di sé la scena è l’elemento umano, privato.
Mancando, nella pluralità dell’espressione, ormai un criterio in arte, la scelta di centrarsi sulla rivelazione di contenuti emozionali complessi sintetizzati attraverso la presenza in scena di una persona, questo ritornare all’elemento essenziale è salutare e vivificante come un ritorno a casa.
“Una umanità ferita” nota Cristina Valenti, parlando del teatro di M’Arte, e più in generale del teatro siciliano che negli ultimi tempi ha collaborato tanto al rinnovamento della scena italiana. Persone in scena come monadi, che al di là delle parole e solo con l’onestà e la forza della loro presenza testimoniano il loro essere. Questa presenza non è solo fisicità. C’è in essa un contrasto che la rende irrisolta, e per questo non del tutto comprensibile, e aperta.
Il valore del contenuto e la bravura e la sensibilità degli artisti fanno sì che questo elemento umano sia portato agli spettatori con eleganza e misura, tanto più apprezzabile perché presuppone la rinuncia a cavalcare una moda. Non c’è, infatti, un abuso del dialetto.
Da notare il lavoro e l’intelligenza degli attori, che arricchisce anche la drammaturgia. Un esempio per tutti: l’azione del cadere dalla sedia, che è rischiosa perché reiterata, sul finale si trasforma - in particolare nel lavoro di Maria Cucinotti, il cui personaggio è portatore più degli altri di una funzione straniante. Diventa più astratta, si stilizza, ma attraverso una qualità di movimento non prevedibile, inedita. Acquistando così un carattere che porta davvero in un’altra direzione rispetto al realismo.