Il San Carlo propone La Traviata, il capolavoro di Giuseppe Verdi, in una nuova produzione nella quale spicca l’interpretazione della protagonista femminile.
Le molte morti di Violetta
Nella lettura di Lorenzo Amato>, Violetta non muore solo alla fine dell’opera, quando è raggiunta troppo tardi dal pentimento di Alfredo e dalla benedizione di Germont padre. È già esanime al risuonare delle prime note arcane del preludio, accasciata al centro della scena, schermata, quasi vegliata e poi rivelata da un drappello di figure anonime e grigie che volgono le spalle alla platea e si proteggono con scuri ombrelli. E di nuovo muore – se non nel corpo, nella dignità – quando alla fine del secondo atto l’uomo che ama la schiaffeggia (qui con violenza forse eccessiva) con le banconote appena vinte al gioco-duello con Douphol. Il destino della signora delle camelie appare dunque segnato sin dall’inizio e tristemente ribadito da segnali inequivoci. L’esito tragico, che è insieme un trapasso e una catarsi, giunge come una dolorosa conferma, come il suggello inevitabile di una vita che brilla e si consuma alla luce di una fiamma troppo intensa.
La regia di Amato, nel complesso rispettosa, conosce momenti di forte suggestione, come quando il plotone dei convitati, alla fine della festa d’esordio, incalza la protagonista con una marcia compatta e minacciosa (“Si ridesta in ciel l’aurora”). Meno felici appaiono alcuni dettagli che inutilmente esplicitano o troppo accentuano i significati del testo (Violetta che beve avidamente da una bottiglia di champagne e poi la scaglia al suolo prima di “Follie, follie”, Giorgio che si fa il segno della croce quando allude ai “nodi” non benedetti dal cielo nella perorazione feroce del secondo atto).
Ad avvolgere i protagonisti, elegantemente abbigliati da Franca Squarciapino, provvedono le belle scene di Ezio Frigerio, caratterizzate da una magniloquenza lugubre e quasi barocca negli interni sontuosi. Un po’ le penalizza il trasparente posto giusto a metà del palcoscenico sul quale scorre una pioggia impalpabile e incessante, con un effetto di velatura che a lungo andare perde di efficacia e appiattisce la visione.
Una protagonista eccellente
Splendida è l’interpretazione di Maria Mudryak, che con la sua tecnica perfetta rischierebbe di risultare algida se non fosse per la varietà sorprendente dei colori, il dosaggio controllatissimo degli spessori dinamici, le inflessioni espressive eleganti e appropriate. La sua Violetta è dominata da una sorta di urgenza, come se, consapevole del proprio destino, volesse comunicare tutto ciò che ha da dire prima che sia troppo tardi; il suo canto, perciò, scorre senza indugi, gli approdi sono stabili e concisi, le curve melodiche nitide ed esatte. Notevolissimo (e molto apprezzato) anche Vladimir Stoyanov (Germont padre), un poco legnoso nel gesto ma da manuale per quanto riguarda gli aspetti vocali: pienezza, sicurezza, bel colore, fraseggio curato. Meno efficace e decisamente opaco l’Alfredo di Vincenzo Costanzo.
Daniel Oren, accolto e salutato dal pubblico con generose ovazioni, stacca tempi taglienti (che talvolta mettono un po’ in affanno il coro) e squaderna la partitura con gesti decisi e asciutti, vigorosi e rigorosi. Il risultato è un’interpretazione matura, coesa, pienamente convincente. Una menzione speciale merita l’assolo di Giuseppe Picone, matador d’eccezione che aggiunge una preziosa gemma coreutica a uno spettacolo riuscito e giustamente applaudito.