All’Arena di Verona il non plus ultra del genere, reso enormemente più significativo dalla tragica circostanza della morte del suo autore, Franco Zeffirelli, appena sei giorni prima del debutto: La traviata di Giuseppe Verdi, con Daniel Oren sul podio.
Come nei migliori derby o nelle grandiose finali sportive che attirano fazioni schierate su due poli opposti, alimentando una giusta e vigorosa rivalità, ecco scendere sull’Arena di Verona un non plus ultra del genere, reso enormemente più significativo dalla tragica circostanza della morte del suo autore, Franco Zeffirelli, appena sei giorni prima del debutto: La traviata di Giuseppe Verdi, con Daniel Oren sul podio.
Il derby in Arena
Il lutto che commuove l'intero ambiente, qui a Verona si fa più spesso, una coltre che si confonde con un'invenzione iniziale che vede sfilare sul palcoscenico il funerale di Violetta con un nero tiro a quattro di cavalli, prima del sipario. Un elemento che comunque nulla aggiunge dal punto di vista narrativo, fino a considerarlo superfluo se non anche ultroneo, e che qualcuno prova anche ad interpretare come strettamente connesso ad un omaggio alla recente scomparsa.
Dicevamo del derby: come ormai accade spesso, di fronte all'opposto di Violette Valéry in versione burlesque, oggi anche di fronte alla Tradizione con la T maiuscola si assiste a sintomi di insofferenza, un ribollire di animi che può fare solo piacere all'osservatore in quanto racconta di quanta passione e quanta vita ci sia ancora in questo meraviglioso spettacolo che è l'Opera.
Ebbene, siamo nell'Arena di Verona, di fronte all'ultimo allestimento di un maestro della messinscena classica e proprio sulla sua “opera prediletta”, dopo i precedenti con Carmen, Aida, Madama Butterfly, Trovatore, Don Giovanni e Turandot: quale luogo migliore per alimentare il dibattito fra tradizionalisti e modernisti? La sovrintendente della Fondazione, Cecilia Gasdia, l'aveva definita “Hollywoodiana”, e ci siamo in pieno: la produzione va anzitutto elogiata infatti per il lavoro magistrale delle maestranze, che hanno costruito, incastrato ed offerto agli occhi meravigliati del pubblico una scenografia davvero maestosa. L'invenzione di un enorme sipario in Arena, gli sfondi caldi con pitture artigianali dalle nuance dorate, blu, rosse e verdi, dettagli da osservare ovunque, e una sequenza di semoventi che trasportano la scena prima su una curatissima villa a due piani, poi in un giardino di campagna sormontato da una vetrata importante quanto elegante. Senza dubbio una cura cinematografica, che infatti riporta alla mente, oltre a precedenti allestimenti di Zeffirelli sul tema verdiano come quelli del Metropolitan di New York e di Firenze, le soluzioni cinematografiche del dicembre 1982.
Certo, in ogni cosa che luccica troppo si trovano inevitabilmente incongruenze, anacronismi, elementi migliorabili e narrazioni discutibili... e per esercizio di analisi allora possiamo pensare che Violetta non dovrebbe morire nel lusso della sua villa ma in piena povertà e abbandono, che la festa del primo atto non muove le masse con la rigorosa attenzione zeffirelliana, che le barcacce laterali sono poco armoniose con il resto dell'architettura, che l'effetto kolossal talvolta non giova all'intima sofferenza dei protagonisti... tuttavia sarebbe esercizio di consistenza tale da non far prevalere lo sguardo sull'essenziale.
Oren, un gigante
Daniel Oren, ovvero uno dei migliori direttori al momento, conduce l'Orchestra dell'Arena di Verona in piena grazia: sezioni e volumi sono come Verdi comanda, e la sua presenza si fa sentire senza risparmio, costante sia sulla musica sia sul comparto vocale. La sua mano lo rende quasi il compositore, usando e giocando con gli strumenti, facendoli dialogare e sottolineando in maniera magistrale i momenti più toccanti dell'Opera. Bella anche l'idea dell'uso di un'orchestra dietro al palco, in particolare nei momenti in cui hanno dialogato, rendendo quasi un suono stereofonico anche nello sconvolgimento dei canoni acustici.
Lisette Oropesa è una grandissima Violetta, che già nella festa preannuncia con il suo timbro la transitorietà della sua condizione che tradisce quell'intimo afflato romantico che verrà fuori di lì a poco. Una voce piena di armonici e colori, con bella timbrica e potenza, ottimi registri alti ed eccellenti e precise sfumature delicate nei pianissimi e nei dolcissimi della partitura.
Alfredo Germont è il tenore messicano Arturo Chacon-Cruz, che via via guadagna sicurezza e cresce in statura, adatto per un personaggio dipinto come un po’ immaturo, psicologicamente debole in quanto trascinato dalle emozioni. A Simone Piazzola è affidato un ruolo primario come è quello di Giorgio Germond, che interpreta con profondo basso e tono scuro, risultando esperto e autorevole padre. Ottimi anche il Gastone di Marcello Nardis, l'Annina di Daniela Mazzucato e il dottor Grenvil di Alessandro Spina. Prova importante del coro di Vito Lombardi (bella la parte moralista contro gli eccessi di Alfredo) e costumi ben curati di Maurizio Millenotti.
Su coreografie di Giuseppe Picone, ultima presenza in scena per l'étoile Petra Conti nel ballo alla festa di Flora, un'artista che prima del debutto nel ruolo ha raccontato a teatro.it le sue emozioni (Qui l'intervista completa) .
Inutile sottolineare il successo e l'entusiasmo del pubblico, sollecitato per di più dall'immancabile bis proposto da Oren sull'eterno brindisi.