“Dimmi tu addio se a me dirlo non riesce: morire è nulla, perderti è difficile”. I versi di Umberto Saba mi sono venuti in mente durante la Traviata scaligera e credo ben esprimano il senso della drammaturgia di Dmitri Tcherniakov che racconta la paura d'amare di una donna non giovane che ha vissuto una vita non facile, sentimentalmente e socialmente, una donna disillusa che però accetta il rischio di cedere all'amore un'ultima volta e, perso il gioco (e l'amore, che era solo un'illusione), non ha alternative al morire, come scrisse il poeta triestino nel 1942. Sotto la lente di ingrandimento del regista russo c'è il rapporto tra i protagonisti, non il contorno o il contesto.
Durante l'ouverture Violetta è sola: si trucca, si sistema i capelli, si veste con eleganza velando linee rassicuranti nella loro morbida opulenza. Si attarda davanti allo specchio, consapevole dell'età che avanza e delle occasioni perdute, riflette su un futuro di solitudine che ha accettato da tempo, malgrado tutto. È tranquilla. Pensa di essere ormai immune ma resta fragile, scopriremo poi. Ricevere è una “fatica”, un obbligo sociale a cui lei si presta quasi rassegnata. La festa ha inizio, inevitabile. All'arrivo dei primi ospiti il visconte le parla di un certo Alfredo che sarebbe interessato a lei, Violetta è scettica e sdrammatizza con l'ironia una paura che sente dentro: gli porge la mano ma poi la sottrae con uno scatto, la faccia impertinente. I due si guardano, da lontano, un po' spavaldi ma anche un po' timidi, lui di più. Il brindisi diventa una gara tra i due per conquistare il favore dei presenti. Alfredo impacciato e maldestro si versa lo champagne sulla manica della giacca. Violetta finge un malore e resta sola con Alfredo che la convince della sincerità e della profondità dei propri sentimenti. Violetta, incredula e scettica ma incuriosita e attratta, racconta all'amica-confidente Annina desideri, paure, turbamenti: varrà la pena rischiare la serenità un'ultima volta? Libertà e solitudine da preferire? Davanti ad Annina Violetta non ha infingimenti, forse in lei vede se stessa fra qualche anno e la confidenza non pone limiti alla confessione. Due amiche che parlano dell'amore, ne conoscono il fascino ma ne percepiscono il pericolo, dunque la necessità di sdrammatizzare con l'ironia di quelle risatine chiarificatrici.
Violetta accetta il rischio e, per mettere alla prova i sentimenti di Alfredo, si trasferisce con lui in campagna. Tutto sembra essere perfetto: gli innamorati che per la prima volta convivono trascorrono il tempo a fare la spesa e cucinare insieme, sistemare la casa, quasi che condividere le incombenze quotidiane renda solido anche il sentimento nascente. Ma Germont prospetta la vacuità del sentimento in Alfredo, un ragazzotto impulsivo e viziato, seppure non giovanissimo: un figlio il cui amore per Violetta non reggerebbe all'urto coi problemi della famiglia di origine. Violetta è impacciata davanti a lui, diventa ipercinetica e preda all'ansia di “piacere” a questo suocero privo di compassione: quasi una furia in “Non sapete”. Se prima aveva tolto la mano ad Alfredo, qui è Germont che non la ricambia e la lascia con quella mano alzata come un'umiliazione. A Violetta basta poco per percepire che forse si è illusa, che invano ha rischiato tutto e perso. Ma una verifica s'impone, definitiva: se ne va e lascia in bella mostra sul tavolo l'invito di Flora affinchè Alfredo lo veda.
Nel confronto tra Alfredo e il padre verosimilmente si vede quello che accade sempre nella vita: il figlio, davanti alla “predica” del genitore, fa altro, cerca di sottrarsi allo sguardo accusatore, alle parole che non concedono scampo. Alfredo culla la bambola vestita come Violetta alla festa: è un immaturo, illuso che la donna amata sia una bambola che basta cullare e tutto torna a posto. Alfredo e il padre sono in cucina, Alfredo impasta, affetta verdure in modo schizofrenico e, nella massima agitazione del momento, si taglia con il coltello (citazione di “Donne sull'orlo di una crisi di nervi”?). Alfredo, agitatissimo, vede il biglietto indirizzato a Violetta e s'infuria. L'intervallo cade a questo punto perchè è qui la svolta della storia, dopo l'agnizione. Perchè nel tempo che passa Alfredo è uscito dalla vita di Violetta ma lei prova a riconquistare il suo amore.
Alla festa di Flora Alfredo pare in preda a un incubo: durante zingarelle e mattadori (senza balletti) si sente osservato, deriso, isolato. E reagisce nel modo peggiore: accusa e offende Violetta per dimostrare la propria forza. Lei prova a spiegargli: “Alfredo, Alfredo” gli dice, via la parrucca, le mani nelle mani, gli occhi negli occhi, in ginocchio davanti a lui (che senso ha che questo sia cantato “a parte”?). Ma nulla da fare: Alfredo si alza e se ne va. Violetta è stravolta, distrutta. La vita non ha più senso ora che Alfredo se n'è andato e tutto è stato illusione (“Il supplizio è sì spietato che a morir preferirò”: nel libretto c'è già tutto). Come in Saba “Morire è nulla, perderti è difficile”.
Violetta è di nuovo davanti allo specchio, in vestaglia e priva di trucco: “Come son mutata” ora che l'amore non c'è più, ora che è certa che l'amore non c'è mai stato, quello vero, per cui vale la pena di rischiare. Ora è sola, completamente. E, improvvisamente, invecchiata. Il telefono non suona. La bambola è lunga a terra con le braccia alzate. Arresa, anche lei. Oltre la finestra solo un grigio indistinto, che c'era già nel primo atto ma pesava di meno sull'anima. Di tante sedie nel primo atto ne sono rimaste due, di tante persone nella sua vita sono rimaste solo lei e Annina: due sedie, due solitudini senza rimedio. Violetta si stordisce con alcol e psicofarmaci che le causano malesseri fisici. Violetta non ha il coraggio di guardare Grenvil negli occhi (ai medici non si riesce a mentire) e parla con lui guardandolo riflesso nello specchio. Il dottore conferma ad Annina che la malattia di Violetta è tutta dentro la sua testa. Alfredo torna, ma è pura apparenza e fa ancora più male: egli arriva con fiori e pasticcini, il massimo della banalità e dell'impersonalità. “Parigi, o cara” diventa una presa in giro e Violetta lo capisce, risponde ma l'espressione è ormai assente. Alfredo è vistosamente imbarazzato e impacciato, vuole andarsene, guarda l'orologio. Violetta non ha più bisogno di prove, ha il cuore spaccato e non vuole più vivere. Poco importa che sia il mix di barbiturici o altro a ucciderla nella sostanza: il comportamento di Alfredo e di Germont hanno certificato l'inganno e la solitudine. Morire è nulla. Così, all'improvviso. Su una sedia. Morire di solitudine e di mal d'amore. Annina caccia via padre e figlio, correi di quella morte. Che poteva essere evitata.
Qui sta la prova che Dmitri Tcherniakov è nel giusto. Ieri come oggi. Paura d'amare. Illusione a un'età non giovane. Un abbandono. Morire di solitudine. Il regista è attento a gesti e movimenti in modo da rendere credibile la sua drammaturgia calandola perfettamente nel libretto e nella musica e ambientandola in stanze (sue anche le scene) che funzionano da perfetta camera acustica, ambienti contemporanei ma che rimandano a un'opulenza che viene dal passato, tardo Ottocento per la casa di Violetta (la ringhiera sul balcone chiaramente parigina), linee più morbidamente déco per il salone di Flora, rustica schiettezza per la casa di campagna con le fronde che ondeggiano al vento dietro il bowindow dove è inserito il tavolo con la tovaglia all'uncinetto. Se le luci di Gleb Filshtinsky risultano perfette, i costumi di Yelena Zaytseva sono vistosi e al limite dell'eccesso nel copricapo indiano di Flora ma anche negli stivaletti-pantofole di Violetta e in altro ancora.
Daniele Gatti dirige in modo straordinario una partitura arcinota, rendendola nuova e prodiga di emozioni inattese e conferendole la forza di un lungo arco drammatico sempre teso e come sul punto di spezzarsi che accompagna perfettamente la messa in scena e tiene in pugno l'attenzione degli ascoltatori. Il suono è leggero, trasparente, matericamente fatto di screziature che compongono una trama madreperlacea preziosa. Un merletto impalpabile dove la contemporanea presenza di vuoti e pieni si traduce in suoni e pause dense di senso che sembrano arrivare direttamente al cuore dello spettatore. I tempi sono allargati per consentire al canto di spiegarsi e dipanarsi non solo in tutto il suo significato ma anche in mille nuovo agganci e spunti percorrendo tutti i dettagli della partitura. Il controllo dell'orchestra, ridotta nei numeri, è assoluto e fa risaltare i sentimenti dei protagonisti dando spazio agli strumenti solisti. Anche grazie alla scenografia che funge da camera acustica, l'amalgama tra le voci e il suono è meraviglioso e consente alla protagonista di cantare in punta di labbra e rendere udibili come non mai i pianissimi. Fino alla tessitura altissima dei violini, trasportati all'ottava sopra, nelle ultime battute presa dalla prima versione per rendere un suono rarefatto, angelicato, una sorta di trasfigurazione. L'opera è stata eseguita nella sua interessa, senza i tagli di tradizione e con tutte le ripetizioni.
Il cast è dominato da Diana Damrau, Violetta ideale per immedesimazione scenica e mezzo vocale, vicino alla quale comunque non sfigurano Piotr Beczala e Zeljko Lucic. Il soprano ha mezzevoci struggenti, declinate già in “Ah fors'è lui che l'anima”, i fiati lunghi favoriti dai tempi larghi e dal sussurro orchestrale che la valorizza al meglio lasciandole lo spazio intero nelle agilità che sembrano ancora più scoperte. Nel corso dell'opera la Damrau tocca ogni corda del personaggio voluto dal regista con totale credibilità e forza attoriale percorrendo ogni sfumatura della malinconia fino a sfociare nel dolore assoluto. Resta un capolavoro “Addio del passato”, iniziato a labbra quasi chiuse e finito con un canto che diventa lamento indistinto, un canto che esprime in modo indicibilmente emozionante l'impossibilità di sopravvivere alla fine dell'amore: un addio alla vita che è pura commozione. Ma commoventi sono anche i momenti di canto scuro, negli abissi del registro grave, come le puntature luminosissime in acuto.
Piotr Beczala ben tratteggia questo Alfredo egoista, goffo, spavaldo e incapace di gestire i sentimenti; coraggiosamente va oltre gli stereotipi nella gestualità anche quando sembra che sia per mera provocazione. Il tenore ha voce dal bellissimo timbro, luminoso e screziato di bruniture, sicuro in ogni momento, fulgente e saldo nelle salite all'acuto, corposo e vellutato nelle discese nel grave; Beczala è generoso nell'uso della voce come ben si addice al personaggio e, se è parso un poco in affanno in “Oh mio rimorso, oh infamia”, ciò è dovuto al ritmo imposto da Gatti per rendere la rabbia improvvisa del momento.
Zeljko Lucic è un Germont rigido e autorevole, calcolatore e deciso nel non lasciare la situazione in mano ai due innamorati, tanto che lo sguardo cupo e minaccioso li sorveglia dalla finestra; la voce è scura e grande e la scarsa luminosità è un valore aggiunto; nelle sue due arie si trova davanti Violetta e Alfredo emotivamente accelerati e presi dalle faccende domestiche per non sentirsi dire quello che lui sta cantando e il baritono risponde con accenti granitici che non lasciano spiragli.
Nell'economia dello spettacolo un ruolo fondamentale ha Annina, ben interpretata attorialmente da Mara Zampieri coi capelli rossi a cresta, divenuta un riferimento iconico per l'allestimento; a lei il pubblico tributa un'ovazione personale. Antonio Corianò è un bravo Gastone, Andrea Mastroni un tonante Dottore. Adeguato il resto del cast: Giuseppina Piunti (Flora), Roberto Accurso (Barone), Andrea Porta (Marchese). Con loro Nicola Pamio (Servo di Violetta), Ernesto Pretti (Domestico di Flora), Ernesto Panariello (Commissionario) e il coro della Scala, a ranghi ridotti per esigenze sceniche, impeccabilmente preparato da Bruno Casoni.
Teatro esaurito, molti applausi per tutti e ovazioni per Diana Damrau.