Lirica
LA TRAVIATA

Violetta allo specchio (da vent'anni)

Violetta allo specchio (da vent'anni)

Apparsa per la prima volta nel 1992 sulle scene dello Sferisterio di Macerata  e vincitrice del Premio Abbiati di quell’anno quale miglior allestimento operistico, quella ideata da Josef Svoboda (1920-2002) è rimasta nella memoria collettiva come “La traviata degli specchi”. Il compianto scenografo boemo era un vero maestro nel costruire spettacoli di altissimo livello – sia di prosa che di lirica - nei quali la luce giocava un ruolo fondamentale, con scenografie estremamente essenziali ma permeate di dinamicità, nelle quali trovava impiego tutto un insieme di audiovisivi, laser, schermi multipli, e di effetti di ogni tipo. E’ in questo modo che scaturivano dalla sua mente innovativi intriganti mix che hanno sempre deliziato il pubblico – “Il circo incantatore” creato a Praga nel 1977 per il teatro Laterna Magika ha guadagnato oltre 2500 repliche – e che hanno contribuito in maniera affatto marginale allo sviluppo della nuova concezione multimediale del teatro contemporaneo.
Andato disperso il materiale originario, l’allestimento de “La traviata” svobodiana è stato ricostruito nel 2009 dalla Fondazione Pergolesi Spontini (in scala minore e quindi più in piccolo, a beneficio di sale per così dire ‘normali’) affidandone il ripristino a Benito Leonori: con i costumi di Giancarlo Colis e le coreografie di Valentina Escobar, è stato quindi presentato al Teatro Pergolesi di Jesi con la direzione di Giampaolo Bisanti, e poi mandato un po’ in giro per il mondo.


Per comprendere al meglio l’originale ed inconfondibile concezione che lo contraddistingue, bastano le parole del suo stesso ideatore: «Lo specchio  (uno specchio enorme, grande come tutto il palcoscenico, n.d.a.) è appoggiato per terra, poi prima che cominci la musica lo specchio si alza lentamente e si bagna di luce, mostrando nel suo percorso di salita un sipario teatrale che sembra nascere dal nulla. Il senso simbolico di questo inizio richiama l’idea di un libro che viene aperto, una storia che viene rivista, una memoria che si apre». Così, quando lo specchio è aperto a 45°, lo spettatore si trova a vedere la scena non solo orizzontalmente ma anche riflessa verticalmente, con un bellissimo effetto tridimensionale, potendo seguire i personaggi anche dall’alto con un risultato veramente insolito e straniante. Spettacolo assai fascinoso per l’occhio, dunque: ma bisogna nondimeno attribuire anche alle intuizioni registiche di Henning Brockhaus, negli anni riprese, rifinite, portate ad uno stato di perfezione, il grandissimo merito che spetta loro. Molto indovinata la collocazione del dramma in un indefinito momento a cavallo tra fine ‘800 e primissimo ‘900, burrascoso tempo di trapasso tra due secoli (verrebbe da dire anzi tra due civiltà), così come la pittura dell’ambiente raffinato e decadente di una Parigi ispirata alla sensualità delle disinibite signore di Boldini ed alla languidezza dei gentiluomini di De Nittis. Ma soprattutto, la regia di Brockhaus sa mostrarsi in ogni istante densa, solida, asciutta, volutamente pensata – sto usando parole sue - come «rispecchiamento e straniamento della verità di un dramma  che è tale in quanto riflette per l’ennesima volta il sacrificio di una creatura quale esito tragico del voyeurismo erotico maschile». Forse proprio in questa visione alla fine lo specchio si alza del tutto a 90°, di modo che le ultime battute vedano riflessi la sala – e quindi il pubblico – in un più ampio coinvolgimento voyeuristico generale.


Per questo appuntamento della stagione lirica triestina si è radunata una compagnia di giovani, costruita con una certa logica. Si è soliti ripetere il famoso commento verdiano che per “Traviata” ci vorrebbero tre soprani diversi: bene, allora potremmo dire che Jessica Nuccio nel primo atto era Violetta all’80%, nel secondo al 90%, e solo nel terzo al 100%. Non vi sono dubbi sul fatto che la giovane cantante siciliana possieda tutti i presupposti giusti per questo difficile e complesso ruolo, cioè una voce fresca e ben costruita, un ottimo registro centrale, giusta messa di voce, un facile disimpegno negli acuti e nelle colorature e – cosa che non guasta – anche i requisiti anagrafici per il physique du rôle. Le manca però un pizzico del giusto temperamento, cosa che non le permette di esprimere quello spirito cinicamente seducente che deve accompagnare la demi mondaine che accoglie per la prima volta Alfredo sotto il suo tetto (e poi, ça vans sans dire, anche nel suo letto). Così come poi non emerge la doverosa sottigliezza pisicologica nell’affrontare l’ostico dialogo con Germont padre, dove già all’inizio l’impennata altèra di «Donna son io, signore» casca ahimé del tutto inerte, ed anche la concentrazione passionale dello slancio disperato di «Amami Alfredo» dovrebbe essere resa ancor più intensa e drammatica. Insomma, direi che solo verso la fine il suo personaggio raggiunge la corretta consistenza, offrendo un «Addio del passato» di pregevole fattura che lascia pienamente soddisfatto e pago lo spettatore. Quanto a convincimento, poi, il giovanissimo tenore lituano Merunas Vitulskis stava non pochi gradini più sotto: intanto, appare monocorde nell’espressione – lo stesso atteggiamento vale dall’inizio alla fine -  come nell’emissione, tendente sempre al forte senza varietà né sfumature; monotono nell’uso dei colori – e sì che la voce è bella, e luminosa - ed alquanto granitico nell’adottare una psicologia indifferenziata in un personaggio, poi, che è di per sé a senso unico: che si tratti di corteggiare l’amata o consolarne l’imminente fine, il tono non varia molto. Il baritono ucraino Vitaliy Bilyy si sta costruendo una buona carriera in Italia, mettendo a frutto le naturali doti: una vocalità rotonda e generosa, di solida robustezza e dalla tinta grigio perla. Il suo Germont senior credo abbia convinto tutti: magari non si è mostrato ricchissimo di sfumature, però di certo sa tenere saldamente la scena e consegnare le sue due arie con adeguata eleganza; concludendo il suo momento di gloria con la cabaletta «No, non udrai rimproveri» affrontata con la giusta intonazione, e senza scivolare in tribunizie veemenze. Intorno a loro, abbiamo trovato come di consueto al Verdi un buon comprimariato: la Flora di Letizia Del Magro, il Gastone di Alessandro d’Acrissa, il Douphol di Christian Starinieri, il D’Obigny di Dario Giorgelè, il Grenvil di Francesco Musinu, l’Annina di Anna Bordignon, il Giuseppe di Dax Velenich.


Sul podio dell’Orchestra del Verdi stava Gianluigi Gelmetti, offrendo una direzione di solido mestiere, ma senza troppi voli di fantasia; dirla routiniera sarebbe eccessivo, perché non difettavano cura strumentale, i necessari effetti, buona intesa con gli strumentisti; ma mi pare che oltre alla indispensabile attenzione alle esigenze di un cast complessivamente giovane – e quindi maggiormente bisognoso di attenzioni direttoriali – il maestro romano non si sia spesso troppo in finezze. Buona prova del coro triestino diretto da Paolo Vero, anche se non mi pare il caso di far indossare abiti pericolosamente succinti a figure matronali e fanées; assolutamente non memorabili le coreografie di Valentina Escobar, per di più affidate a ballerine non proprio eteree, seppure volenterose e di contagiosa simpatia. Nella seconda compagnia hanno cantato Alida Berti (Violetta), Leonardo Caimi (Alfredo) e Angelo Veccia (Giorgio Germont).

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)