Lirica
LA VEDOVA ALLEGRA

Il fascino dell'operetta

Il fascino dell'operetta

L’utilizzo del termine operetta, non in quanto definizione di genere certo ma in una accezione se non proprio dispregiativa quanto meno limitativa (oppure anche solo ancillare in rapporto al grande melodramma), è quanto mai inappropriato nel caso de La vedova allegra. La musica di Lehár è infatti un vero e proprio emblema dell’epoca che l’ha prodotta, il simbolo di una Vienna di inizio secolo intuitivamente consapevole di essere sull’orlo di un baratro e che per questo si abbandona superficialmente alla frenesia più assoluta, autoprivandosi di ogni dote di preveggenza ma al tempo stesso incapace di togliersi di dosso quella caratteristica patina melanconica onnipresente in ogni forma artistica che ha generato.

L’allestimento veronese, per la regia di Gino Landi, ha saputo cogliere perfettamente nel segno, ricreando questa atmosfera da ambiente spensierato, ma al contempo decadente, imbevuto di piccoli intrighi fatti di tradimenti, di minute schermaglie sessuali, di nuove proclamate libertà, senza però mai passare il limite o cadere nell’eccesso. Nel corso di tutta la serata non si avvertono momenti morti grazie ad una evidente abilità teatrale che risente certo anche dell’esperienza televisiva del regista stesso. Forte la vena caricaturale impressa da Marisa Laurito alla figura di Njegus (qui nello specifico diventato la signorina Njegus) che si trasforma in una donna tuttofare, sbadata e un po’ orba, la quale si aggira per ogni dove parlando napoletano e facendo la finta tonta, pur essendo in realtà dotata di una perspicacia fuori dal comune. Sul palco la Laurito è perfettamente a suo agio, lo domina, gestisce la scena a suo piacimento, sfodera battute a ogni piè sospinto senza mai però eccedere, risultando alla fine signora della serata. Piacevole e intelligente anche l’ammodernamento dei dialoghi: essendo Njegus, infatti, essenzialmente persona comica ed essendo lo stile comico quello che più risente dell’usura del tempo, l’aggiornamento delle battute in chiave più moderna può in questi casi essere solo auspicabile per consentire al pubblico di rivivere nel concreto quella che era l’atmosfera originaria dello spettacolo.
Tradizionali, e con ovvi rimandi all’Art Nouveau, le scenografie di Ivan Stefanutti che si avvalgono di pannelli mobili per effettuare rapidi cambi di scena. Ampio e abbellito da sfarzosi lampadari lo scalone posto al centro dell’ambasciata del Pontevedro da cui scende quale femme fatale la vedova, ricco di statue di dubbio gusto (ad indicare una ricchezza forse un po’ ostentata) il giardino di casa Glawari e infine, per il terzo atto, ecco un casalingo Chéz Maxim organizzato all’ombra di una Tour Eiffel fiammeggiante di lampadine.

Michaela Marcu è una bellissima Hanna Glawari dal fascino irresistibile e dallo stile impeccabile; l’emissione è morbida, la voce viaggia pulita svettando in acuto, la pronuncia eccellente, anche nelle parti recitate. Al suo fianco l’ottimo conte Danilo di Markus Werba, anch’egli caratterizzato da una dizione italiana impeccabile, che non mostra alcuna difficoltà nell’adattarsi alla tessitura piuttosto alta della parte ed evidenzia una vocalità ricca di colori e sfumature con il timbro baritonale insolito per il ruolo. Davvero smagliante la Valencienne di Daniela Schillaci che brilla per nitore dell’emissione e piacevolezza del timbro, affiancata da Anicio Zorzi Giustiniani puntuale e preciso nel ruolo di un Camille di Rossillon delicato, dalla personalità certo meno forte di quella dell’amata. A cercare di dirigere le fila di tutte le vicende il bravo Barone Zeta di Francesco Verna, cui si aggiunge la simpatica coppia Cascada/St. Brioche di Dario Giorgelé e Francesco Pittari. Di alto livello anche tutti i comprimari: Nicolò Ceriani nel ruolo di Kromow, Elena Serra nei panni di una lasciva Olga, Andrea Vincenzo Bonsignore nelle vesti di Bagdanowitsch, Francesca Martini che interpreta Sylviane, Romano Dal Zovo nel ruolo di Pritschitsch e Alice Marini in quello di Praskowia.

Vivace e dinamica la direzione dell’Orchestra dell’Arena di Verona ad opera del maestro Roberto Gianola che ha saputo accompagnare bene i cantanti mettendo in evidenza anche gli aspetti più lirici della partitura. Buona la prova del coro, straordinarie le coreografie di danza eseguite dal Corpo di ballo dell’Arena il quale si è esibito nel turbinoso can-can tratto dal balletto Gaité Parisienne di Offenbach e Rosenthal scatenando gli applausi del pubblico.

Un vero piacere vedere il teatro Filarmonico gremito di un pubblico caldo e prodigo di applausi a fine serata e a scena aperta.

Visto il
al Massimo Bellini di Catania (CT)