Classica
LA VEDOVA ALLEGRA

Matteo Renzi e la vedova allegra

Matteo Renzi e la vedova allegra

Sembra incredibile come l’epoca in cui Franz Lehár compone La vedova allegra, ottenendo fra l’altro un inaspettato successo di pubblico, sia la stessa in cui artisti come Kokoschka si spingano ad indagare i meandri dell’incubo, ma, come si sa bene anche oggi, i volti della crisi sono molteplici e la leggerezza non può che essere l’altra faccia della medaglia su cui campeggia l’immagine della fatica di vivere. Oggi, come ieri, in ogni caso la sessualità e i suoi piccoli scandali si mescolano di frequente agli intrighi politici e le feste da ballo ne sono il giusto e doveroso coronamento. Una levità apparente, dunque, quella in cui si svolgono gli intrighi pontevedrini, specchio di un’epoca consapevole di essere giunta al proprio capolinea.

I costumi di inizio Novecento del bell’allestimento firmato Hugo De Ana, cui si affiancano modernissime architetture in vetro e metallo, fissano da un lato le vicende all’epoca in cui sono realmente collocate, ma al contempo ne sottolineano la serialità che le proietta ben oltre un determinato periodo storico. Il susseguirsi degli eventi viene sottolineato dal continuo comporsi e scomporsi di ambienti, realizzato grazie al ruotare delle strutture in vetro le quali nel secondo atto saranno alleggerite dalla comparsa di grossi rami di glicine che rimandano al giardino di casa Glawari e nel terzo saranno illuminate da molteplici scritte al neon riportanti i nomi dei principali locali parigini.

A fronte di un allestimento scenico e di una regia di grande efficacia, il vero tallone d’Achille dello spettacolo è stato quello di non riuscire a ingenerare quella atmosfera di comica leggerezza che deve permeare le vicende. Non basta interpolare il libretto di Stein e Léon con battute che richiamano con stucchevole evidenza l’imitazione di Renzi fatta da Crozza o accennare ad una radice germanica per la crisi del Pontevedro, con scontati rimandi alla politica promossa da Angela Merkel, o, peggio ancora, fare i soliti triti riferimenti a goderecce attività sessuali per suscitare una risata che non abbia al massimo un retrogusto da avanspettacolo. Questo in ogni caso a prescindere dalla bravura di Antonello Costa che ha interpretato al meglio in questo contesto la parte di Njegus.

Affascinante, anche se un po’ algida, l’Hanna Glawari di Svetla Vassileva: bello il colore di voce, particolarmente curati i pianissimo, soprattutto nella canzone di Vilja. Signorilmente misurato e vocalmente corretto il Danilo Danilowitsch interpretato da un Alessandro Safina ormai avvezzo al ruolo cui conferisce un tocco particolare di sottile ironia. Scenicamente spigliata la Valencienne di Daniela Mazzucato, l’emissione è controllata e una notevole verve le consente di sbozzare con sapienza i tratti distintivi del proprio personaggio. Colore di voce piacevolmente caldo per il Camille de Rossillon di Ivan Magrì che talvolta pare però conferire accenni eccessivamente lirici a una figura di innamorato totalmente inserita in un contesto di frivola mondanità. Un po’ troppo caricato invece, al pari di quanto avviene per la coppia Cascada/St Brioche interpretata da Dario Giorgelè e Max René Cosotti, il barone Zeta di Nicolò Ceriani. Con loro Paolo Maria Orecchia (Bogdanowitsch), Marta Calcaterra (Sylviane), Donato Di Gioia (Kromow), Francesca Rotondo (Olga), Stefano Consolini (Pritschitsch), Francesca Franci (Praskowia).

In tono con il resto dello spettacolo la direzione di Christoph Campestrini: complessivamente corretta e precisa, ma un po’ priva di smalto. Buona la prova del coro.

Visto il
al Regio di Torino (TO)