Si ride per non piangere, in questo La vita davanti a sé portato in scena da Silvio Orlando: ma si ride di risate genuine, non stiracchiate, anche se amare. L’attore napoletano ha una certa vena naïve nel suo DNA, e su questa vena è riuscito a costruire una carriera di primo livello.
Probabilmente proprio per questa sua caratteristica riesce a interpretare in modo perfetto un testo apparentemente naïf come quello tratto da La vita davanti a sé: il romanzo di Romain Gary che vinse il Premio Gouncourt, e cioè il principale premio letterario francese.
In base al regolamento, gli scrittori possono vincere il Gouncourt solo una volta nella vita: poi non possono più partecipare. Romain Gary, invece lo ha vinto due volte: la prima nel 1956 con Le radici del cielo; la seconda volta nel 1975 appunto con La vita davanti a sé. Per partecipare, si era iscritto con lo pseudonimo di Emile Ajar: la verità venne scoperta solo dopo la morte di Romain Gary, nel 1980.
Un testo naïve, ma per finta
Un testo apparentemente naïve, si diceva: e l’avverbio è fondamentale per la comprensione dell’opera. Con la visione del mondo e le parole di un ragazzino emarginato tra gli emarginati, Gary e Orlando creano e descrivono un mondo apparentemente neutro e normale, ma in realtà crudele, duro, cinico. Un mondo di solitudine, emarginazione, miseria materiale e morale: ma anche un mondo capace di slanci, generosità, amore e solidarietà che non riusciresti a trovare altrove.
Orlando è perfettamente credibile nei panni di Mohamed, detto Momò: ragazzino musulmano senza padre né madre (ma non necessariamente orfano) che vive in un quartiere popolare della banlieu multietnica parigina. Momò, con la sua irresistibile spontaneità, fra una risata e una domanda spiazzante, regala illuminanti considerazioni sui grandi temi dell’esistenza, facendo scricchiolare le tante sovrastrutture del mondo adulto.
Il suo legame emotivo con il mondo è la figura di Madame Rosa, tenutaria di un asilo-parcheggio per i figli della colpa e mamma surrogata dello stesso Momò. Aggrappandosi a questo tenue filo, Momò con la curiosità tipica dei suoi coetanei cerca di capire il mondo che lo circonda, approcciandosi con un misto di cinismo, rassegnazione, disincanto e speranza.
Silvio Orlando riesce a mettere in scena una disperata ricerca di amore, di legami, di significato, senza cadere nel patetismo dickensiano: ma anzi mantenendo un’apparenza ironica e sarcastica. Non è facile descrivere la solitudine profonda che si nasconde sotto la patina della normalità, ma Orlando ci riesce. E la scena in cui Momò si rifiuta di accettare la fine del suo unico legame con il mondo, è di una umanità dolente degna dei grandi classici.
E il bis si trasforma in un concerto
«Romain Gary ha anticipato senza facili ideologie uno dei temi più importanti di oggi: la convivenza tra culture, religioni e stili di vita diversi – dice Silvio Orlando nelle note di regia - Il Teatro in questi casi non deve certo indicare vie e soluzioni ma deve raccontare storie emozionanti, commoventi, divertenti, chiamare per nome individui che ci appaiono massa indistinta e angosciante. Raccontare la storia di Momò e Madame Rosa, nel loro disperato abbraccio contro tutto e tutti, è necessario e utile».
Silvio Orlando recita da solo, ma a fargli da supporto, commento e cornice è un gruppo musicale multietnico di primo livello, l’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre: Simone Campa (chitarra battente, percussioni e direzione musicale); Gianni Denitto (clarinetto, sax); Maurizio Pala (fisarmonica); Kaw Sissoko (kora e djembe). Alla fine, dopo un quarto d’ora di applausi che non accennavano a diminuire, Silvio Orlando e gli altri hanno dovuto tornare in scena per un bis. Non un’improbabile ripresa della prosa, ma un mini concerto di altri 15 minuti: con un inedito Silvio Orlando al flauto traverso.