Prosa
LA VOCE UMANA

Un dolore troppo mentale.

Un dolore troppo mentale.

La voce umana è un monologo scritto da Cocteau nel 1930 che ogni attrice, prima o poi, sogna di portare in scena, per la sfida che rappresenta interpretare una donna che sta per essere abbandonata dall'uomo col quale ha avuto una storia, mostrandocene le ultime conversazioni telefoniche, costituendo dunque più che un monologo un dialogo monco facendoci ascoltare solamente le parole di lei.

Da questa conversazione, ellittica, allusiva, per niente narrativa o chiarificatrice, si capisce che la relazione è durata 5 anni e che è finita perchè l'uomo sta con un'altra, che l'uomo è spinto a chiamarla dai sensi di colpa e perchè è interessato a rientrare in possesso di alcuni suoi effetti personali e che vuole lasciarle l'incombenza del cane che ringhia  e mi odia perchè crede che la tua scomparsa sia causa mia.

Un testo recitato con l'enfasi e l'indignazione che ogni interprete ha reputato adeguate alla statura morale del personaggio.

Tutt'altro che donna vinta o sconfitta, capricciosa o dannatamente aggrappata al suo uomo infatti come, pure, è stata proposta nelle sue varie reincarnazioni (anche al cinema, in una famosa interpretazione di Anna Magnani, noi preferiamo ricordare quella teatrale con Ingrid Bergman),  la protagonista de La voce umana è una donna artefice del proprio destino che ha bisogno dell'uomo col quale conversa al telefono non in quanto donna, ma come conseguenza della sua insindacabile decisione di stare con lui, presa nell'autonomia di una auto-emancipazione che i tempi (il 1930) le impedivano di condurre con coerenza.

La fragilità del personaggio non è infatti quella psicologica del femminino quanto quella sociale del femminile cui non era concesso spazio alcuno nella gestione di un rapporto amoroso che non vedesse l'uomo in posizione di superiorità.

Lo si capisce bene dai pur fuggevoli accenni di lei quando ribadisce al telefono all'uomo che ama di avere scelto di stare con lui ogni giorno anche se sapeva che era destinata a finire.

Incapace di mentirgli o di invischiarlo in giochi di potere ricattatori la protagonista si finge disinvolta, gli nasconde i troppi sonniferi presi, per non farlo preoccupare, e quando glieli confessa non è per spaventarlo ma perchè mossa da un sentimento di franchezza e di orgoglio perchè lui le sfugge, la accusa ingiustamente di essere polemica, le mente sul luogo da cui le telefona (non la sua casa che lei conosce tanto bene) e vuole organizzare il ritiro dei suoi indumenti.

Uno testo che, senza voler denunciare, mostra il margine ridottissimo di autonomia che società - e uomini - concedevano alle donne negli anni 30.

Nell'allestimento di Paola Maffioletti la protagonista diventa un uomo. Un'idea brillante e quasi naturale che  mentre sottolinea l'universalità e l'equivalenza uomo-donna nelle relazioni amorose, restituisce, in questa nuova incarnazione al maschile, la prospettiva con cui la protagonista doveva apparire al pubblico degli anni 30 spostando il focus dall'emancipazione femminile a quello di una emancipazione differente.

Infatti nonostante la società di oggi sia fondamentalmente maschilista e misogina come quella di allora (non bisogna certo ricordare i femminicidi per richiamare alla mente di chi legge la sperequazione in cui ancora oggi le donne sono costrette a vivere) è indubbio che oggi la donna non debba più seguire quegli imperativi morali di moglie, madre e casalinga cui negli anni 30 era relegata.
Al di là del cambiato sentire pubblico le leggi dello Stato, italiano come francese (divorzio, aborto, procreazione assistita, legge contro lo stupro, nuovo stato di famiglia, tanto per citarne alcune), danno alla donna uno spazio in cui autodeterminarsi una volta inimmaginabile.

Il fare della protagonista un uomo innamorato di un uomo restituisce bene la scarsità di manovra delle donne di allora con quella in cui oggi gli uomini che amano gli uomini sono relegati proprio come una volta succedeva loro. Quando ci si comincia ad auto-emanciparsi, prima della liberazione, ci sono  sempre isolamento e ludibrio.

Questa scelta implica diversi rischi, primo fra tutti quello di cortocircuitare il femminile del personaggio originale con quello di un uomo che, amando un altro uomo, può essere visto sotto la stessa luce.

Alessandro Ercolani ha però la squisita capacità di rimanere credibile anche quando mostra la propria fragilità, quando si presenta in scena con una vulnerabilità squisitamente maschile che non fa il verso a quella femminile.

Un altro rischio è legato all'intervento da fare sul testo, anche tramite la messinscena, cui la regista non ha saputo sottrarsi.

Purtroppo la strada intrapresa ha dato risultati deludenti e del tutto irrisolti.

La scelta di spostare l'epoca storica dagli anni 30 alla nostra contemporaneità, mostrando in scena non solamente un telefono fisso, come nell'originale, ma anche ben due telefoni cellulari e una segreteria telefonica, ha costretto a espungere dal testo tutti i dialoghi con la centralinista alla quale la protagonista chiede, si impone, esige la comunicazione col suo amato bene.

Qui invece con la moltiplicazione dei telefoni diventa un artificio che finisce per ostacolare la credibilità narrativa (nell'originale non conoscendo il numero dal quale lui la chiama, lei non può che aspettare una sua telefonata, oggi possiamo - almeno potenzialmente - sapere il numero da cui ci stanno chiamando... l'aspettare la chiamata non è più un costringimento esterno ma diventa una scelta di supinità).

Maffioletti fa esitare il protagonista ogni singola volta che un(o dei) telefono(i) squilla prima di rispondere, esitazione giustificata le prime volte, che, ripetuta uguale a se stessa per ogni singola telefonata, diventa vezzo e maniera contribuendo a dare al personaggio un'aura di insicurezza che quello originale non ha proprio.

Cercando, come è spiegato nelle note di regia, di voler approntare un omaggio personale all'autore al suo amore per il cinema, la danza, la scrittura, alla sua capacità di sfruttare diversi linguaggi rendendoli funzionali all'urgenza di comunicare la regista dilata i tempi tra una telefonata e l'altra  inserendovi due diversi tipi di sipari: delle proiezioni video e dei movimenti coreutici del protagonista, entrambi privi di una loro autonomia e necessità narrative.

Le immagini hanno una mera funzione esornativa mostrando gocce e zampilli d'acqua al rallentatore o dettagli e profili del volto del protagonista coi colori invertiti, come nei vecchi negativi fotografici, oppure mostrano il protagonista (?) correre per strada, solo, tra la gente,  immagini che, un po' pretenziosamente, la regista considera un omaggio al Testamento d'Orfeo un film di Cocteau del 1960.

Lungi dal dirci qualcosa che non ci dica anche il testo queste immagini  interrompono il racconto senza contribuire a svilupparlo.

Anche i timidi accenni coreografici cui la regista costringe l'interprete, che per mostrare la sofferenza interiore, si contorce come un pesce senza acqua, mettendosi prono, curvandosi e alzando ora un braccio ora una gamba - per tacere delle pose plastiche dentro e intorno alla vasca da bagno (la pièce è ambientata nel bagno e non in camera da letto come nell'originale, omaggio a Rossellini e Magnani) - rimangono potenzialità mai davvero sviluppate con coerenza e coraggio dei timidi cenni abbandonati prima che possano diventare discorso avendo così il solo effetto di dare filo da torcere all'interprete che, ogni volta, deve riconnettersi al pathos raggiunto dal monologo/dialogo (che Cocteau calibra sapientemente in un perfetto equilibrio di plausibilità psicologica) così brutalmente interrotto (ed Ercolani, miracolosamente, ce la fa quasi sempre).

Questi intermezzi hanno l'effetto, ci chiediamo quanto voluto, di rendere improvvisamente astratto e mentale un racconto che più naturalistico non potrebbe essere.

La messinscena mette invece tra parentesi il fulcro emotivo del protagonista, la dolorosa separazione dall'uomo che ama, trasfigurando l'essenza del personaggio originale.

Nell'originale la protagonista si rende conto che l'uomo le ha mentito riguardo il luogo da cui effettua le telefonate perchè, una delle tante volte in cui la linea cade, lei cerca di richiamarlo a casa, dove lui le ha detto di essere, e dove in realtà non c'è.

Quando lui la richiama lei non gli rivela di avere scoperto la menzogna e così se ne sottrae mentre l'uomo, ignaro di essere stato scoperto, crede ancora di poterle mentire impunemente.

Nella messinscena di Maffioletti questa parte è stata espunta.

Così quando nel testo originale la protagonista non si fa più scrupolo a nascondergli i troppi sonniferi presi proprio perchè lui le mente senza pudore nella versione di Maffioletti il protagonista fa questa confessione non già al telefono, al suo amato, ma durante uno dei sipari, degli intermezzi, da solo, a se stesso, supino, di rosso illuminato.

E qui avviene lo strappo più grande rispetto al testo originale.

Mentre in Cocteau l'amore della donna, per quanto enfatico, è sempre concreto e reale e rivolto a un'altra persona, nella versione di Maffioletti diventa un amore mentale, solitario, come se più che essere innamorato di un uomo il protagonista sia innamorato dell'amore.

Che senso ha raccontare a se stessi il dolore insopportabile di un amore che sta finendo se non quello di denotare in questa maniera un egocentrismo che sfocia nella più narcisistica delle autocommiserazioni?

Lo specchio di scena, cui più di una volta il protagonista si osserva, anche quando conversa col suo amato, tradisce allora - ma è solo un nostro sospetto - il giudizio della regista sull'immaturità di un amore rivolto dal simile al simile secondo la classica lettura post freudiana che vede l'omosessualità maschile come un disturbo narcisista.

La regia di Maffioleti è tutta incentrata sul personaggio e poco sulla sua reazione con l'altro personaggio, quello che non vediamo e non sentiamo ma che esiste ed è presente nel testo anche se asente sulla scena.

Quando il protagonista chiede di poter conservare la cenere delle lettere che l'altro vuole bruciare, quando gli mente sui guanti che l'altro chiede se siano lì, o quando parla del cane,  questi elementi non fanno mai parte dell'ambiente del protagonista, entrano sempre in scena in maniera enfatica e meccanica: le lettere vengono estratte dalla borsa al momento giusto, i guanti compaiono in scena solo nell'istante in cui sono menzionati quando parla del cane la regista gli fa prendere in mano un guinzaglio con attaccato un collare, svuotandone il significato emotivo che hanno per il  protagonista e dandoli in pasto alla scena come occasioni di una performance.

Un grande plauso va perciò ad Alessandro Ercolani che riesce a dare credibilità al personaggio  nonostante la regia, ostile all'interprete, sembri continuamente distrarlo e fiaccarlo nella possibilità di esprimere emozioni invece di mostrarcele.

Però nonostante le sue evidenti mancanze questo allestimento de La voce umana ci sentiamo di difenderlo e di sostenerlo comunque, vuoi per la bellezza di un testo che, a distanza di oltre 80 anni, non ha perso minimamente  la sua forza, e certamente per l'impegno con cui è stato portato in scena, dandone una lettura brillantemente altra, anche se di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno, purtroppo anche di quello teatrale.

Visto il 20-02-2013