Lady Macbeth, Suite per Adelaide Ristori: è riuscito molto bene il Frankenstein messo in piedi dal trio Elisabetta Pozzi, Andrea Porcheddu e Davide Livermore per celebrare la regina del teatro mondiale a metà del XIX secolo, a 200 anni dalla nascita.
Il mostro di Mary Shelley era costruito con pezzi di cadaveri; per mettere insieme la sua creatura, invece, il Teatro Nazionale di Genova ha utilizzato pezzi di spettacolo vivissimo.
Abbiamo usato la similitudine con Frankenstein perché, dopo avere visto l’ottima performance di Elisabetta Pozzi sul palcoscenico, non siamo riusciti a incasellarla in una ben precisa forma di espressione e/o comunicazione. Prosa? Commedia? Dramma? Televisione? Docufiction? Satira? Didattica? E potremmo continuare.
Lo spettacolo è metafisico (proprio nel senso di arte che vuole creare suggestioni con l’accostamento in modo apparentemente irrazionale di oggetti disparati) e metateatrale, dato che è un concentrato di teatro nel teatro.
Pozzi litiga con Livermore, in una scenografia da Rischiatutto
Sembra improvvisato lì per lì, e invece è calibrato al secondo. Elisabetta Pozzi recita; poi si interrompe per parlare con il regista Davide Livermore, fare un commento, protestare. Livermore, dalla sua ipotetica cabina di regia, interviene all’altoparlante in stile-tv (appunto), la sgrida, la sprona, la blandisce. I due battibeccano che neanche George & Mildred della fortunata serie tv inglese. Poi, alla fine dello spettacolo, si scopre che Livermore era seduto comodamente in un palco insieme al dramaturg Andrea Porcheddu, e che Pozzi litigava con un nastro registrato, con una perfetta sincronia di tempi.
Lo spettacolo inizia con la grafica e il bianco e nero della televisione anni 70: sembra volutamente una puntata di Rischiatutto, animazioni di Sandro Lodolo comprese.
Il giornalista e critico musicale Alberto Mattioli compare in uno schermo in bianco e nero, picchiandosi fisicamente con scritte che lo aggrediscono e lo importunano: è chiamato a dare la voce a importanti personaggi della storia e dell’arte che parlano di Ristori. Ovviamente è un contributo registrato durante la fase di produzione, ma sembra proprio partecipare da remoto allo show in corso sul palcoscenico.
Adelaide Ristori, la rivoluzionaria del teatro
Che c’entra Lady Macbeth? Lo dice Elisabetta Pozzi: il modo migliore di descrivere la grandezza di un artista è quello di raccontare e mostrare la sua arte. Che nel caso di Adelaide Ristori era smisurata: ha recitato in tutto il mondo, davanti alla gente comune e alle teste coronate; ha inventato il modo moderno di organizzare, gestire e interpretare il teatro; ha sdoganato la professione dell’attrice, che fino a quel momento era considerata poco più che una prostituta; e molte altre cose ancora.
Uno dei suoi cavalli di battaglia era appunto il Macbetto, la traduzione in versi del Macbeth di Shakesperare da parte di Giulio Carcano: che è stato anche alla base di questa Lady Macbeth elaborata da Andrea Porcheddu con Sara Urban. Elisabetta Pozzi passa con fluidità dal racconto quasi documentaristico e divertito, a brani e scene del Macbeth ristoriano ad elevato indice tragico: con la relativa sofferenza.
Giuseppe Verdi la vede, e cambia il suo Macbeth
Si cerca di riscostruire l’epoca, il milieu culturale ed emotivo, i fatti storici e gli scenari internazionali: il tutto entrando e uscendo dal testo scespiriano. Roba che stai ancora ridendo per la battuta precedente, e ti ritrovi all’improvviso nella scena della sonnambula.
Tanto per far capire la potenza della rappresentazione e del personaggio: quando Giuseppe Verdi vide Adelaide Ristori recitare Lady Macbeth, decise di modificare il personaggio del suo Macbeth (sonnambulismo di Lady Macbeth - atto III, scena III-IV. Una macchia è qui tuttora).
Livermore, che è anglo-piemontese, interpreta Cavour e fa il proclama con cui annuncia (in piemontese) che l’italiano sarà la nuova lingua del Regno. E dato che in gioventù ha fatto pure il cantante d’opera con Pavarotti, si riconosce il suo vocione nelle canzonette di intermezzo e contorno. Insomma: non si riesce a capire di cosa si tratta perché non ha etichetta, ma è da vedere.