Prosa
L'ALBERGO DEL LIBERO SCAMBIO

Il non-luogo dell'ipocrisia

Il non-luogo dell'ipocrisia

Un interno borghese, un salotto qualunque della Torino dei giorni nostri. Questa è l’ambientazione scelta da Marco Lorenzi per l’adattamento italiano - prodotto dallo Stabile cittadino - de L’albergo del libero scambio, di Georges Feydeau, esempio “da manuale” di commedia degli equivoci.
Vengono mantenute le origini francesi dei personaggi: Pinglet (Alessandro Bruni Ocaña) lavora
Con il socio Paillardin (Elio D’Alessandro) alla realizzazione di un edificio di dieci piani che ospiterà una serie di loft all’avanguardia. L’impegno dei due uomini sul progetto ha delle conseguenze sulle rispettive mogli: una (Silvia Giulia Mendola) è indifferente e assuefatta alla routine quotidiana, mentre l’altra (Barbara Mazzi) e insoddisfatta della propria vita coniugale e non ha difficoltà a nasconderlo. Ecco perché Pinglet e Marcella, la moglie di Paillardin diventano amanti – o almeno, ci provano – spostando l’azione scenica da un salotto borghese alle camere di un albergo.
L’albergo del libero scambio è un  non-luogo dell’ipocrisia, nel quale anche gli spettatori vengono efficacemente introdotti da Vittoria (Beatrice Vecchione), la cameriera dei coniugi Pinglet, che in questo modo, cerca di “svezzare” l’ingenuo ed etereo Massimo (Christian Di Filippo), aspirante poeta e nipote di Paillardin.
L’albergo del libero scambio è “un posto dove le persone fanno quello che non possono fare a casa propria”, popolato da misteriose presenze e frequentato da strani personaggi: il fobico Mathieu, afflitto da una miriade di scompensi linguistici (magistrale l’interpretazione di Federico Manfredi), e la sua “figlioletta” (Alba Maria Porto,che sbalordisce senza bisogno di proferire parola, le bastano espressioni, sguardi e gestualità).
Una volta messo in moto il meccanismo degli equivoci si capisce subito che tutto dovrà tornare al suo posto: e, ancora una volta, è Vittoria a farsi, consapevole e rassegnata interprete del messaggio di immobilismo tipicamente borghese che Feydeau ha saputo mettere a nudo con abilità già nella Parigi della Belle Epoque.
Una lodevole prova d’attore per ciascun interprete di questo allestimento; tuttavia la regia di Marco Lorenzi, pur dimostrandosi scorrevole, ha contato troppo - e quasi esclusivamente – sulla “potenza” del testo di Feydeau, preoccupandosi (forse) in maniera eccessiva di come poter veicolare in modo incisivo un  certo tipo di messaggio (l’ipocrisia derivante dall’immobilismo borghese), contenuto in una commedia tipicamente più adatta, secondo il pensiero comune, ai cartelloni dei teatri privati, di stampo commerciale, che non alla programmazione di uno Stabile pubblico.

Visto il 01-12-2015
al Gobetti di Torino (TO)