Si potrebbe discutere a lunghi su pregi e difetti de L'amico Fritz, anche se negli ultimi tempi pare si punti più su questi ultimi che sui primi. In verità, sin dall'origine non mancarono partigiani esaltati e feroci detrattori, contrapposti gli uni agli altri.
Suppergiù all'epoca dell'apparizione del secondo titolo di Mascagni al Teatro Costanzi di Roma, il 31 ottobre 1891, D'Annunzio pubblicava un feroce pamphlet anti-mascagnano intitolato Il capobanda, e in una lettera a Barbara Leoni deplorava quella che giudicava un'immeritata fortuna, tributata ad un “artiere bestiale” da parte di un “bestiale pubblico”. Ma era dunque“bestiale” anche il non facile pubblico viennese che l'accolse con favore sei mesi dopo, o quello amburghese che l'apprezzò vivamente nel gennaio del 1893 nientemeno che sotto l'appassionata direzione di Gustav Mahler, convinto sostenitore del talentuoso livornese?
Ancora a metà del secolo scorso, un acuto musicologo come Gino Roncaglia nel suo fortunato manuale Invito all'Opera vi scopriva tutta una serie di qualità positive, annotandovi tra l'altro che «dopo il violento dramma passionale di Cavalleria rusticana, Mascagni volle tentare l'idillio e dette una nuova prova della sua facile ispirata vena. Nell'Amico Fritz l'azione è quasi nulla; e tutto si impernia su un sottile movimento di stati d'animo. Mascagni ha messo da parte la tavolozza a tinte sgargianti e a grandi effetti della Cavalleria, ed ha preso i pastelli ed i colori più delicati per sbozzare queste figure graziose e chiaroscurare poeticamente e con leggerezza di mano l'ambiente che le circonda». Oggi, magari per gli stessi motivi qualcuno invece – si veda la voce relativa a tale lavoro nel noto Dizionario dell'Opera Baldini & Castoldi – assume un atteggiamento di malcelato sarcasmo, trovandola zoppicante nello sviluppo e mielosa nel carattere (per carità, gliene danno pieno motivo ad esempio la canzone di Beppe «Laceri, miseri tanti bambini» od il languido Duetto delle ciliege); e all'occasione persino retorica, come in effetti accade nell'enfatico confronto tra David e Suzel «Presso la fonte...e sposa fu Rebecca». Non si può, in fondo, dargli del tutto torto. I nostri gusti, i nostri metri di giudizio son da allora cambiati, come è cambiato il mondo. E la verità come sempre sta nel mezzo: così come accettiamo le 'strane' convenzioni dell'opera barocca, dobbiamo considerare i gusti dell'Italietta umbertina e prendere L'amico Fritz per quel che è: cioè una giostra di tenere effusioni sentimentali, con un sostegno musicale di fresca e piacevole leggerezza (malaugurato libretto a parte). E se volete trovare in proposito giudizi sereni ed equilibrati, meglio affidarsi ad uno specialista come Cesare Orselli ed al suo prezioso saggio Mascagni.
Sia come sia, in veste di concertatore Fabrizio Maria Carminati compie prodigi nel tenere unite le fila di una partitura gremita di melodie ruffiane e di piccole gemme strumentali, ma di per sé alquanto dispersiva e centrifuga; e che qui alla Fenice - incredibile a dirsi - mancava addirittura da sessant'anni. Considerevole l'attenzione alla resa di atmosfere psicologiche molto diverse tra loro, vaganti dal brillìo salottiero del primo atto alla crepuscolare melanconia degli altri due; e poi accurato l'espansivo fluire narrativo, il fraseggio orchestrale languido ed elegante, la lodevole attenzione ai dettagli strumentali, ai colori, alle nuances; tutti meriti che trovano il loro apice nella resa fascinosa dell'Intermezzo. Giocando con le parole, Carminati riesce nell'impresa di far quadro il cerchio: trarre cioè fuori tutte le migliori qualità di questa giovanile creatura mascagniana, e nasconderne il più possibile le magagne. Un plauso, poi, al bravissimo primo violino – credo Roberto Baraldi - nella toccante “violinata” di Beppe, e all'Orchestra della Fenice, che in ogni frangente sostiene adeguatamente il suo concertatore. Ottimo comportamento pure del Coro, preparato da Claudio Marino Moretti, nei “fuori scena”.
Il mattatore della serata – parliamo ora dei cantanti - è Alessandro Scotto di Luzio, che affronta il suo Fritz con grande musicalità interiore, e un piglio vigoroso, fresco, pieno di slancio virile. La sua è una vocalità genuina e ben calibrata, che si mostra man mano sempre più matura, sempre omogenea in tutta la gamma e dotata di prerogative timbriche limpide e lucenti. Meno centrata invece la Suzel di Carmela Remigio, che forse per evitare pudibonde smancerie raffredda alquanto un personaggio dai tratti squisitamente adolescenziali, tutto intriso di trepidanti e tenerissime ingenuità. L'errore mi pare sia quello di adottare una linea musicale dal carattere severo e algido, più confacente alle sue pur pregevoli Alceste, Donn'Anna, Vitellia, Fiordiligi, che alle trepidanti e fragili figure femminili – quali Manon, Mimì, Adriana, Maddalena, ed ovviamente Suzel - del primo Verismo. Il David che ci presenta Elia Fabbian - ben caratterizzato come personaggio, non c'é che dire – pecca di troppa foga e di prodigalità vocale, risultando a tratti sin troppo debordante. La figura di Beppe ben si adatta a Teresa Iervolino; il mezzosoprano laziale la sviluppa infatti con un certo garbo e sobrietà, sostenendola con una emissione che unisce fascino timbrico e buona proprietà tecnica. Adeguato il resto del cast: William Corrò (Hanezò), Alessio Zanetti (Federico), Anna Bordignon (Caterina).
Ci ha non poco deluso, dal punto di vista visivo, questo nuovo allestimento della Fenice. Quanto a regia, l'apporto di Simona Marchini appare da capo a fine decisamente latitante: si limita cioè a muovere i personaggi come marionette, né par di scorgere né vera partecipazione, né autentica poesia, e nemmeno una qualche idea degna di nota in un tal mare di noia. La scenografia di Massimo Cecchetto ingabbia piccole scene da cartolina agreste in una opprimente, enorme riquadro di griglie verdi; cosa questa che dovrebbe rappresentare – stando alle note di regia – il verde dell'Alsazia. Da canto loro, i costumi da cartolina d'antan di Carlos Tieppo sono decisamente bruttini, quando non rasentano addirittura la parodia ed il ridicolo come nella bizzarra mise zingaresca di Beppe o nel tripudio di nastri, fiocchi e grembiulini d'ogni colore imposti alla povera Suzel.
Sala non gremitissima come in Traviata o Barbiere; però il pubblico è parso palesemente soddisfatto e prodigo di applausi.
(foto di Michele Crosera)