Lirica
L'AMICO FRITZ

L'AMICO FRITZ

L'AMICO FRITZ

Abbandonando le tinte violente della "Cavalleria rusticana" e la sua forte intensità drammatica, Mascagni tentò le vie della commedia con "L'amico Fritz", sulla scorta d'un libretto che Nicola Daspuro gli aveva ricavato dal modesto, ma nondimeno fortunato romanzo della coppia Erckmann-Chatrian. La storia è arcinota: nel villaggio alsaziano che ospita la tenue vicenda, al riparo dei vizi della civiltà cittadina tutti i personaggi paiono gustare la dolcezze della vita, vivendo in pace e in amabile fraternità un mondo fatto solo di buoni sentimenti. «Nella cornice agreste, lontana dai turbamenti del mondo, si imbottiglia il vino, si cuociono frittelle croccanti e ci si innamora. L'unico ostinato nel sottrarsi al matrimonio, capitola di fronte a un paio di occhi innocenti. La trama è tutta qui, nei virginali palpiti di Fritz e Suzel che scoprono l'amore in un contorno di scenette moralistiche e lacrimogene», commenta ironicamente Rubens Tedeschi nel suo "Addio, fiorito asil", ricordando maliziosamente che anche il vecchio Verdi aveva trovato la storia insulsa oltre il sopportabile («Ho letto in vita mia molti, moltissimi libretti cattivi, ma non ho mai letto un libretto scemo come questo», confidava infatti in una lettera al Ricordi, con la consueta scarsa diplomazia).
Certo, la storia è fragile che più non potrebbe, esile quanto quella dei romanzetti rosa di Liala o della Alcott nei quali una protagonista di rango inferiore - di volta in volta cameriera, commessa, segretaria, maestrina o altro - dopo varie peripezie finisce sempre per convolare a nozze con il suo bel principe azzurro. Il quale, guarda caso, risulta molto spesso proprio il padrone, come accade ad Audrey Hepburn, figlia dell'autista dei facoltosi Larrabee che all'ultimo accalappia l'ombroso Humphrey Bogart in un film celeberrimo come "Sabrina" di Billy Wilder.
Anche se la musica che Mascagni sovrappone ai versi di Daspuro non è sempre memorabile, nondimeno le melodie profuse sono tante, e fluiscono seducenti ed immediate, mentre la partitura nel suo complesso appare piena di simpatici ammiccamenti e di furbate strumentali: come nell'ingresso in scena di Beppe (bel nome davvero per un giovane tzigano) annunciato da rapsodiche sviolinate, e nell'Intermezzo che strizza l'occhio senza troppo ritegno al Sogno della "Thaïs" di Massenet. Perché allora "L'amico Fritz" continua ancora a piacere, unica opera mascagniana da sempre stabilmente in repertorio insieme alla "Cavalleria rusticana"? Probabilmente perché tutta l'operazione messa in campo dal livornese - il recupero sentimentale e musicale di un mondo arcaico e incontaminato, dove tutto è lineare e scontato, senza veri sussulti - è di una ruffianeria rara ed unica, quasi sfrontata, sempre pronta a catturare ancor oggi, a oltre un secolo di distanza da quell'ottobre 1891 che la vide apparire al Costanzi di Roma, il pubblico delle sale di tutto il mondo. Tutto il mondo, dico, e non solo in senso generale: stando alle statistiche, "L'amico Fritz" viene infatti rappresentata più frequentemente all'estero che in Italia.
Nel quadretto bucolico tratteggiato da Mascagni, un rischio latente però è quello che Tenore e Soprano - cioè Fritz e Suzel - si mettano non a tubare dolcemente come tortore, bensì gareggiare in volume e in altezza, perdendo per strada quel tono intimistico che dovrebbe marcare i loro dialoghi. Rischio che nella presente produzione triestina abbiamo visto più volte sfiorato: ora per colpa di Patrizia Orcian, ora di Roberto Iuliano, ora - come nell'abbraccio finale - a causa di entrambi. Perché l'Orciani disegna una Suzel vibrante e intensa, ma decisamente più matronale che adolescenziale, con qualche leggera asprezza negli acuti; mentre Iuliano canta con generosità (anche troppa), forte di un timbro assai accattivante, ma con pochi chiaroscuri - mezze voci e smorzati non se ne sentono - ed un fraseggio a volte approssimativo. Un po' meglio vanno le cose quando cantano da soli: cioè quando la prima si lancia in «Son pochi fior» oppure svela l'angoscia di «Non mi resta che il pianto», ed il secondo mentre sospira il suo «Tutto tace» oppure meditabondo scopre che «Anche Beppe amò». Piero Terranova tratteggia un ottimo David, perfetto solone nel rimbrotto di «Per voi ghiottoni inutili», breve sermone dai curiosi tratti verdiani; e riesce credibile e persuasivo persino nell'enfatico duetto 'biblico' con Suzel, di fronte alla fonte. Eufemia Tufano schiva con un portamento vigoroso ogni bamboleggiamento nel suo effervescente Beppe, declamando con forza un melanconico «Laceri, miseri» e dipanando un seducente «O pallida, che un giorno»; buono sulla scena l'apporto di Max Renè Cosotti (Federico) e di Andrea Vincenzo Bonsignore (Hanezò).
Dal podio, Fabrizio Maria Carminati ottiene dall'Orchestra del Verdi la necessaria leggerezza, riesce a trovare coesione tra i singoli episodi, proponendo la via di una colloquiale bonomia narrativa; rivela la ricchezza di colori della partitura, esalta il contrasto tra le sonorità iridescenti del primo quadro e quelle più elegiache e crepuscolari del secondo, e il clima che scaturisce alla fine è di una fresca ariosità. Sa come porre in grande rilievo le tante belle aperture melodiche senza enfatizzarle troppo; regala giuste sonorità al ruffiano Intermezzo, e schivando il facile bozzettismo scopre il giusto tono per ogni scena.
Quanto alla regia di Daniele Salvo, c'è poco da dire: abituato al teatro di prosa e quindi forse avulso dalle ragioni e dai ritmi musicali di un'opera, nulla o quasi mi sembra abbia trasmesso a questo spettacolo, quanto ad idee ed invenzioni, limitandosi a sorvegliare entrate ed uscite di scena e suggerire qualche mossa. Poche le cose biasimevoli, in verità; ma tra queste un Beppe costretto a mimare in scena con un ridicolo playback le tenebrose volute sonore del primo violino. In questo nuovissimo allestimento triestino, le scene di Lorenzo Fonda sembravano ignare del tenore idilliaco dell'opera: un velario dipinto - mezzo paesaggio alla Courbet, mezzo con disegni astratti - discopre un grande spazio con il salotto di casa Kobus; al primo quadro domina per un po' l'immagine enorme di San Sebastiano trafitto, e al terzo quadro quella d'una donna sgomenta, a bocca semi spalancata; con tutta la buona volontà, non si comprende bene cosa vogliano suggerire. Per fortuna, dopo un po' le fastidiose immagini scompaiono, rivelando sullo sfondo una lunga balconata e la sagoma d'una lontana cittadina. Molto più acconcio il luminoso quadro della fattoria, con il suo bel ciliegio sullo sfondo - tutto bianco di fiori, però, senza rossi frutti - e la bella fontana pronti a dare un senso ai dialoghi. Anche i costumi di taglio decisamente tradizionale e pertinenti al caso, erano disegnati da Fonda. Le luci erano curate da Nino Napoletano. Buona la prova del coro triestino impegnato, come si sa, sempre fuori scena.
La locandina dell'altra compagnia vedeva i nomi di Luciano Canci (chiamato a sostituire un indisposto Massimo Giordano), Alexia Voulgaridou, Paolo Rumetz e Irini Karaianni.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)