Emanuela Grimalda nel suo monologo porta in scena il testo tratto liberamente dal libro di Eleonora Mazzoni “Le difettose” e lo fa con delicatezza, riuscendo a cogliere in pieno il tono del romanzo, sospeso tra ironia e dramma, autocritica e dolore. L’argomento è l’infertilità di una donna, il suo desiderio di avere un figlio e il tentativo di provarci attraverso la procreazione assistita, sottoponendosi a pratiche spesso estenuanti e frustranti. La scena si presenta in modo piuttosto inquietante, una sedia in mezzo a tante piantane con diverse sacche di flebo appese.
L’abilità della Grimalda, sotto la regia di Serena Sinigaglia, è quella di seguire la protagonista, Carla, in questo viaggio della speranza, mettendo a confronto le sue ansie, i suoi timori, le sue illusioni con quelle delle amiche, della madre, del marito e del suo passato, che pesa sulla coscienza come un macigno (un aborto compiuto a sedici anni). L’attrice si aiuta in modo piuttosto abile con i dialetti diversi che caratterizzano i vari personaggi che lei evoca. Katia, l’amica toscana che per avere un figlio è andata all’estero, dove le vengono offerte tutte le soluzioni possibili, e che, alla fine, coronerà il suo sogno. L’altra che le dice che si vive bene anche senza figli, ma lei aspetta il terzo.
Il problema di Carla è essere etichettata come “difettosa”, cioè incapace di procreare. Odia le mestruazioni che mano a mano prendono vari nomi, sempre più spaventosi: le rosse, le maledette. E odia tutti i ritardi, tranne uno. Si sottopone al quarto tentativo di fecondazione assistita, poi al quinto, anche se la dottoressa, che catalizza tutta la sua rabbia, le fa capire senza giri di parole che le probabilità di rimanere incinta sono limitate.
Si attacca alla speranza più esile. Dopo l’inseminazione, scruta le reazioni del suo corpo. Cerca di interpretare in modo maniacale tutti i sintomi della gravidanza (mal di testa, nausea, seno turgido, ecc.). Spera nella BTC (botta di culo), si affida a rituali yoga centrati sull’idea che l’inizio della vita sia una danza (respiro, immagino, danzo, pulisco i miei desideri), rilegge Seneca. L’illusione di essere rimasta incinta viene purtroppo drammaticamente spezzata dalla notizia che il feto è morto.
Ecco allora i rimpianti: perché non ho deciso di fare un figlio prima, perché non mi sono organizzata, congelando le uova. E i rimorsi per quell’aborto a sedici anni, nascosto alla madre e consigliato dalla nonna, e le parole durissime della dottoressa di allora: “Perché hai deciso di abortire? Non potevi stare più attenta? Un bambino non è un oggetto.”
Al sesto tentativo di fecondazione assistita le speranze di avere un figlio calano ancor di più. Ecco allora affacciarsi l’idea della fecondazione eterologa con le giustificazioni annesse: in futuro il possesso genetico dei figli sarà una cosa assurda; i cromosomi non contano; che importanza ha la somiglianza fisica? Ma quest’ultimo dramma incrina il rapporto di coppia e Carla lascerà il marito. Il finale è un ricordo del suo primo giorno di scuola.
La mamma, sempre un po’ assente, si dimentica di darle la merenda e lei deve accettare, quasi con umiliazione, tre “Pavesini” dalla sua compagna di classe. La madre, come al solito, si giustifica: “ne avevo mille di cose da fare”. E, allora, Carla chiede aiuto, ancora una volta, a Seneca, rileggendo il brano dove descrive il suo dolore per il figlio avuto e perso, mentre lei il figlio l’ha perso e mai avuto.
LE DIFETTOSE
Il dolore per un figlio perso e mai avuto
Visto il
04-02-2016
al
Fontana
di Milano
(MI)
Le difettose