Prosa
LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV

Umberto Orsini è Ivan Karamazov, uomo cattivo che non si pente

Umberto Orsini
Umberto Orsini

Umberto Orsini: un uomo, un attore. E poi quello che è diventato quasi il suo alter-ego: Ivan Karamazov. Difficile, dopo 70 anni di carriera, dire dove comincia uno e finisce l’altro, quanto la psicologia del ruolo ha influito sull’evoluzione dell’attore. E’ la cifra interpretativa di questo  Le memorie di Ivan Karamazov, scritto da Umberto Orsini a quattro mani con il regista  Luca Micheletti.

E’ la terza volta che Umberto Orsini affronta l’ultimo è più grande romanzo di Fëdor Dostoevskij: I fratelli Karamazov. L’attore si confronta con la complessità di Ivan Karamazov, libero pensatore che teorizza l’amoralità del mondo e spinge il fratellastro Smerdjakov ad ammazzare il padre Fëdor.


“Colpevole e innocente insieme – dicono le note di regia - Ivan torna a parlare, come una creatura smarrita che sente di non aver esaurito il proprio compito, e cerca di chiarire un’ultima volta le esatte dinamiche dei delitti e dei castighi, in un vero e proprio thriller psicologico e morale, un inedito viaggio nell’umana coscienza, una straziata e commovente confessione a tu per tu con se stesso e con i propri fantasmi”.

Un monologo rutilante, di testa e di pancia

E’ un monologo di 70 minuti rutilante, vorticoso, a volte visionario, che Orsini – alla soglia dei 90 anni - affronta con piglio sicuro e voce ferma: padrone delle pause, dei crescendo, degli scatti d’ira, delle sospensioni, dei ripiegamenti della voce e della coscienza. Lui diventa Ivan Karamazov, come è normale per ogni grande attore: ma per quasi tutto il tempo sembra che lui sia davvero Karamazov, che la sua psicologia si sia fusa anni addietro con quella del suo personaggio principale. 


Ma non c’è solo I Fratelli, nel testo. Sul palco Orsini cita almeno tre volte l’incipit monumentale di Memorie dal sottosuolo:  “Io sono un uomo malato, sono una persona cattiva”. E qua e là emergono suggestioni di altre opere dostoevskiane.

La scenografia aiuta a capire ciò che accade quando – a tratti – diventa difficile stare dietro alle circonvoluzioni cerebrali e intestinali, di testa e di pancia, del soliloquio. C’è un crocefisso rovesciato, appeso a testa in giù sulla scena. A destra c’è una lunga falce: proprio quella che nell’iconografia viene messa in mano alla Morte livellatrice di buoni e cattivi. C’è una botola da cui emerge una luce rossa: l’inferno, evidentemente. Ma anche la coscienza nera di Ivan: che si affaccia sul bocchettone e parla al lato oscuro eppure luminoso e vivido di sé stesso. 

Anche alla fine, Karamazov non si pente

Come quinta c’è uno spaccato di chiesa/sagrestia: una rovina, che sa di fine del mondo imminente e di morte dei valori che rappresentava. Sempre che quei valori fossero stati autentici: ma un’ampia parte del monologo – ambientata ai tempi dell’Inquisizione – vuole dimostrare che non lo erano.

Ci sono pulpiti rovesciati; la neve che entra ovunque e rappresenta l’inverno incipiente, la fine di tutto; fogli di carta, di documenti ufficiali, di testi sacri, che piovono dall’alto e raccontano la frammentazione della coscienza, la fragilità delle stesse basi teoriche dell’etica, custodite nella parola scritta. Tutto crolla e scompare: ma alla fine, Ivan karamazov, non si pente. Lunghi applausi nel finale, con standing ovation, per ringraziare il Maestro.

Visto il 25-10-2023
al Eleonora Duse di Genova (GE)