Nel 1987 Santanelli rappresentò a Parigi il suo capolavoro "Regina madre" di cui Eugène Ionesco ebbe a scrivere su "Le Figaro": “Uno dei più bei lavori teatrali visti negli ultimi tempi”. Tre anni più tardi, "Le tre verità di Cesira" debuttò a Firenze, prodotto dal Teatro di Rifredi e interpretato da Gennaro Cannavacciuolo.
Da un punto di vista formale, il testo è un monologo della protagonista, vivace acquafrescaia napoletana, che rivela progressivamente le ragioni della propria “anomalia” – un paio di baffi virili – dapprima direttamente allo spettatore e quindi alle telecamere del telegiornale. Il motivo pirandelliano della dislocazione del vero, esplicito fin dal titolo, si moltiplica nel gioco metatestuale del racconto indiretto: virtuale e invisibile è anche il destinatario della “confessione-verità” di Cesira, la cui esistenza è rimessa a un atto di credenza dello spettatore. Che si tratti poi della Televisione, moderno sacrario dei Lari che presiede ai rituali domestici, non è certo un caso; quella televisione che nella nostra contemporaneità si è appropriata, per l’appunto, della legittimazione del vero. Un anno dopo l’esordio di questo testo, il mondo occidentale avrebbe scritto per la prima volta direttamente in bella copia una pagina di storia, la guerra in Iraq del 1991, attraverso il racconto-verità della televisione.
La lingua della protagonista è una consapevole stratificazione di dialetto e d’italiano, anch’essa funzionale allo slittamento tra due distinguibili credibilità: quella apparentemente più autentica della lingua primaria e quella più rigorosa e affettata della lingua ufficiale.
La regia di Michele Del Grosso sorregge il crescendo della verità con un personaggio nitido, guittesco, senza né reticenze né cedimenti tragici; se non quello che lo spettatore appena intuisce sull’ultima scena, quando Cesira ripiega i fondali e si prepara all’uscita. Solo allora si avverte la fragilità della parola che fino a un momento prima occupava la scena, e il sapore di amara provvisorietà di quelle verità che avevano forse dissimulato con iperbolica leggerezza un radicato patimento esistenziale. Il comico che scaturisce dall’infelicità, secondo una celebre predizione beckettiana.
Bravissima Antonella Monetti a sostenere il ruolo di Cesira con autorevole coerenza e piena seduzione narrativa; lo spettacolo, minimale nella scenografia e nelle luci, vive dell’esuberante talento di quest’attrice. Resta soltanto inspiegabile la limitata affluenza di spettatori ad un teatro che probabilmente fra vent’anni sarà materia di studio (postumo) sulle cattedre dell’università.
Napoli, Teatro Instabile - 24 marzo 2006