Casi dell'arte. Al Teatro la Fenice Le Contes d'Hoffmann di Offenbach mancava dal febbraio 1994: a dirigerla era un giovane e promettente direttore francese, Frédéric Chaslin, al suo primo accostamento a quest'opera dalle atmosfere fatate. E che ora ce la ripropone a trent'anni di distanza, con l'onore di inaugurare la Stagione lirica 2023/24 del teatro veneziano alla presenza del presidente Mattarella.
Anche stavolta c'è di mezzo il Covent Garden, perché con esso e con l'Opéra di Lyon questa ultima mise en scéne del talentuoso Damiano Michieletto, varata con ampi consensi nel luglio scorso alla Sidney Opera House, è stata coprodotta.
Un'opera lasciata incompleta dal suo autore
Le Contes d'Hoffmann dopo una travagliata creazione venne lasciata incompleta da Offenbach, mancato nell'ottobre 1880. E già a partire dalle recite all'Opéra Comique di tre mesi dopo, sotto l'egida dell'amico Guiraud che completò molte parti, nel tempo se ne sono tentate varie versioni; specie lavorando sulla strumentazione, rimasta in buona parte nella mente del compositore.
Innumerabili poi le varianti sceniche via via inventate per un lavoro di così complessa trama ed ordito, con adattamenti, spostamenti, innesti e tagli più o meno invadenti. Quella ora propostaci, di comune intesa fra regia e direzione, è un'intelligente fusione delle edizioni Choudens ed Oeser – tuttavia senza dialoghi parlati - recuperando anche una prima versione dell'aria di Dapertutto. E l'atto 'veneziano' di Giulietta riprende correttamente il suo terzo posto.
Un “custode del tempio” hoffmaniano
Chaslin si può a buon diritto definire “un custode del tempio” hoffmaniano - tanto che ha in cantiere una 'sua' edizione critica – dopo averlo studiato e diretto sinora in 732 recite in mezzo mondo. Per ultimo alla Scala, lo scorso marzo, anticipando i risultati delle sue riflessioni.
Tornato sul podio della Fenice, imprime nella sua concertazione il sigillo dello specialista e d'una accorta bacchetta, configurando la partitura con grande duttilità e spiccato impulso narrativo, infondendovi colori cangianti, scavandone la ricchezza di dettagli, rendendola sempre intimamente luminosa e poetica. Ed ha dalla sua un'Orchestra della Fenice in gran spolvero, oltre che un Coro – preparato da Alfonso Caiani – dalla condotta ineccepibile.
Una mise en scéne magistrale
Valore cardinale dell'intrigante e immaginifica rilettura registica di Michieletto, ricca di deliziose annotazioni, è quello di esaltare al massimo la componente 'magica' ed onirica dei Contes. Per esempio trasformando Nicklausse, l'amico/ombra fedele, in un elfo alato; o inserendo continui, incantevoli interventi coreografici consegnati a ballerini in mirabolanti costumi.
Così tutta la combinazione di demoniaco, magia e mistero che pervade la partitura – presente già nell'altra unica opera di Offenbach, Die Rheinnixen – trova modo d'esplodere in tanti minuti frammenti visivi. Questo nonostante il protagonista sia presentato ad inizio e fine in un luogo indefinito – della taverna di Norimberga, minima traccia - come un cencioso ubriacone, disilluso dalla vita; e che i tre atti centrali siano trasposti ai nostri tempi, scandendo tre diverse età.
Tre luoghi, tre età diverse per il protagonista
E dove? In una affollato istituto, dove Hoffmann porta i calzoni corti. Spalanzani è un maestro, Olympia un automa capace di complicate equazioni alla lavagna. In una scuola di danza, con piccole allieve irriverenti verso il loro insegnante Frantz, e dove un'Antonia zoppicante anela a rindossare le scarpette da ballo. In un night-club affollato di gente snob, con un Hoffmann in ghingheri; eliminando del tutto Venezia, il duello, i gondolieri.
La bella riuscita di questa mise en scéne intensa e febbrile, peraltro molto deve all'affiatato team alle spalle di Michieletto: cioè alle moderne scenografie di Paolo Fantin, che ritagliando il palcoscenico di sbieco riempiono, bucano, dilatano lo spazio; ai variegati costumi ideati da Carla Teti; al graffiante light design di Alessandro Carletti; alle intriganti coreografie di Chiara Vecchi.
Stesso repertorio, stessi protagonisti del Faust di un anno fa
Oltre al medesimo direttore, ritroviamo due star del Faust feniceo di un anno fa. Ivan Ayon Rivas risolve la figura di Hoffmann più sul versante lirico che su quello drammatico, con una condotta vocale spavalda, lucente e prodiga di bei suoni, un registro mediano corposo ed acuti squillanti e facili.
Lo stesso vale per Alex Esposito, ripetendo un exploit da gigante diseur, impagabile nei quattro ruoli infernali di Lindorf, Coppélius, Miracle e Dappertutto. Tutti risolti con mezzi vocali possenti e ben guidati, eccellenti doti attoriali, ed un physique du rôle aderente ai demoniaci personaggi.
Tre vocalità diverse per tre donne diverse
Tre differenti personalità per le tre figure femminili amate dal poeta: per Olympia, il brio coloristico e l'energia frizzante di Rocío Pérez; per Antonia, l'intensità profondamente tragica di Carmela Remigio; per Antonia, il nitore vocale di Véronique Gens.
La bravissima Giuseppina Bridelli è un pirotecnico e svolazzante Nicklausse; Paola Gardina disegna con bel garbo la Musa; Didier Pieri sostiene con maestria i ruoli di Andrés, Frantz, Cochenille, Pitichinaccio. E poi: Christian Collia è Nathanaël; François Piolino è Spalanzani. Yoann Dubruque impersona sia Hermann che Schlémil, Francesco Milanese sia Luther che Crespel. Federica Giansanti rende bene la sua Voix.