Il pubblico si lascia guidare per mano dal direttore e dal regista ed entra in una dimensione ‘fantastica’ (opéra-fantastique è l’etichetta di genere assegnata ai Contes) per godere di uno spettacolo elegante e coinvolgente.
Il teatro partenopeo propone il capolavoro postumo di Jacques Offenbach in un allestimento dell’Opéra di Montecarlo nel quale gli ingredienti disparati della complessa partitura trovano un godibilissimo equilibrio visivo e drammaturgico.
Verità disperse
Les contes d’Hoffmann è lavoro tormentatissimo: già nella genesi, viste le ansie di riscatto e di riconoscimento che Offenbach vi riversò; poi nello sbocciare (1881) fortunato ma precario, senza la guida dell’autore nel frattempo scomparso; e infine nella larga fortuna europea, punteggiata di tagli, ricuciture, integrazioni di fonti ritrovate e riprogettazioni radicali, in un’incessante metamorfosi che ha reso sempre più sfumati i confini dell’autenticità. Eppure, nonostante tutte le sue vicissitudini, l’opera è sempre riuscita a mantenere una specifica identità, una cifra inconfondibile, un fascino tenace.
Sarà forse per i grandi temi romantici in essa dibattuti: la passione, la vocazione artistica, il male. E, soprattutto, un’idea problematica e a tratti inquietante di verità. Nei Contes la verità – delle cose, delle persone, dei sentimenti – non è mai una, piana, data una volta per tutte, intercettabile per subitanea intuizione. La verità è frantumata, dispersa in schegge taglienti, ridotta a brandelli ambigui e complementari. Solo l’esperienza estetica e la magia della musica consentono di ricomporre quei frammenti e di costruire, attraverso una sintesi faticosa e a tratti dolorosa, il senso dell’esistenza.
Testimoniare una realtà molteplice
Il mondo, nelle note di Offenbach, si propone nella sua incoercibile contraddittorietà: è amore, è inganno, è tensione all’assoluto, è deformazione grottesca. Il regista Jean-Louis Grinda decide di assecondare questo ammasso di forze e di governarlo con fantasia. Se la realtà è disgregata, la rappresentazione chiamata a raccontarla non può che essere molteplice. E perciò Laurent Castaingt, che firma scene e luci, moltiplica lo spazio attraverso piani giustapposti (bellissima la scena teatrale sul fondo con le sue luci tremule), pannelli trasparenti mobili e sghembi, aggregazioni temporanee di suppellettili capaci di accompagnare lo sguardo nell’esplorazione di punti di vista sempre nuovi.
In tutte le fasi dell’azione, inoltre, è presente un drappello di comparse che osservano e ascoltano; questi testimoni muti, doppio sulla scena del pubblico in sala, sembrano voler ricordare la natura fittizia degli accadimenti agiti (anzi, narrati), come in un disvelamento discreto del gioco teatrale che però non inficia e forse addirittura potenzia i meccanismi della partecipazione empatica.
Diffrazioni vocali
La scomposizione prospettica che caratterizza tutto l’impianto dei Contes d’Hoffmann caratterizza anche la distribuzione dei ruoli. La donna amata da Hoffmann non è, semplicemente, la cantante Stella che compare nel prologo e nell’epilogo, ma l’insieme delle tre figure femminili che si incontrano negli atti centrali. Quei personaggi, a ben vedere, corrispondono anche a tipologie vocali diverse, ottimamente disimpegnate dalle interpreti di questo allestimento: Maria Grazia Schiavo rende con bravura la secca astrattezza del virtuosismo di Olympia, Nino Machaidze dona calore e colore ad Antonia e Josè Maria Lo Monaco trova le giuste inflessioni sensuali per delineare il profilo di Giulietta.
John Osborn è appassionato e generoso nei panni del protagonista eponimo. Ad accompagnarlo nel ruolo dell’amico Nicklausse è Annalisa Stroppa, che si fa apprezzare per la precisione dell’intonazione e per la verve. Davvero notevole la prova di Alex Esposito che, con eleganza sulfurea e con sicura e decisa fisicità, declina le molte sfaccettature del demoniaco.Una direzione sobria
Sensibilissima è la bacchetta di Pinchas Steinberg. Il maestro israeliano privilegia i risvolti intimi e lirici delle pagine di Offenbach e rifugge dai gesti clamorosi; la sua lettura è misurata, sobria, concentratissima, sempre attenta all’intesa con i cantanti.
Il pubblico si lascia guidare per mano dal direttore e dal regista ed entra in una dimensione ‘fantastica’ (opéra-fantastique è l’etichetta di genere assegnata ai Contes) per godere di uno spettacolo elegante e coinvolgente.