Daniele Gatti, qui in veste anche di direttore musicale del Teatro dell’Opera, in una sintonia perfetta con l’orchestra di casa in stato di grazia distilla ogni suono già dalla splendida sinfonia iniziale.
Con i Vespri siciliani Giuseppe Verdi si affranca temporaneamente dalla tradizione del melodramma italiano dopo aver completato la celebre “Trilogia Popolare” Rigoletto, Traviata, Trovatore composte in rapida successione ed immediatamente celebri, per confrontarsi con la musica ed il teatro europei, in particolare con la tradizione parigina del Grand-Opéra. Un genere popolarissimo e molto apprezzato dal pubblico, rigorosamente codificato: cinque atti, scene corali e intermezzi coreografici spettacolari non necessariamente coerenti con un impianto narrativo scandito in quadri in cui sono anche distribuiti brani esotici talvolta di ascendenza folklorica.
In questa occasione Verdi, grazie anche alla ricchezza di mezzi che la committenza gli mise a disposizione, in particolare una grande orchestra con strumentisti di alto livello, adattò il suo stile compositivo al gusto di quel pubblico abituato ad orchestrazioni elaborate e complesse. Non mancano i riferimenti alla grande lezione dei maggiori compositori europei, quali Beethoven, Schubert e Rossini, tra cui Verdi proprio con quest’opera si inserisce a buon diritto.
Una lettura raffinata e sorprendente
Daniele Gatti, qui in veste anche di direttore musicale del Teatro dell’Opera, in una sintonia perfetta con l’orchestra di casa in stato di grazia distilla ogni suono già dalla splendida sinfonia iniziale, i pianissimi eloquenti fronteggiano le esplosioni taglienti e secche per sciogliersi nella cantabilità del valzer che sale con un crescendo quasi rossiniano. Il materiale musicale delle opere precedenti riemerge prepotente a ribadire la cifra verdiana, mentre la sensibilità di Gatti evita con eleganza il tanto temuto effetto fanfara.
L’ambientazione è senza luogo e senza tempo, nulla ricorda le atmosfere palermitane né l’epoca della rivolta contro i soldati di Carlo d’Angiò, la scenografia metafisica di Richard Peduzzi consiste in grandi blocchi di pietra come quelli che si trovano nelle cave e in già viste torri-prigione. I costumi di Luis Carvalho sono piuttosto ovvii e scontati, le divise degli occupanti ricordano quelle degli eserciti sudamericani mentre quelli del popolo sono sformati abiti novecenteschi che sottolineano i disagi materiali.
Una storia di violenza
La scelta della regista Valentina Carrasco è quella di sottolineare la violenza pervasiva che coinvolge tutti senza assolvere nessuno. Non ci sono buoni e cattivi, come in una guerra civile ciascuno ha la sua parte di colpa. L’intermezzo coreografico con il balletto delle Quattro stagioni non mostra ninfe e fauni, ma donne violentate, bambole inerti, secchi d’acqua a lavare il disonore. Più che una coreografia sembra una performance di teatro-danza, non troppo in sintonia con la splendida musica di Verdi che si ispira ai suoni della natura. Qui il pubblico si è diviso tra chi rumorosamente ha contestato le scelte della regìa e chi ha apprezzato l’esecuzione musicale con i legni solisti in grande evidenza.
La compagnia di canto, sotto le mani sapienti di Daniele Gatti emerge nell’affollatissimo palcoscenico con intensità e partecipazione, e la scelta di proporre l’edizione originale in francese non pone problemi. Roberto Frontali è un Guy de Montfort tormentato nel suo ruolo di padre pentito, piuttosto che di tiranno oppressore, Michele Pertusi dà voce (splendida) a Jean Procida sottolineando il cinismo del finto buono, mentre Henri è un superbo John Osborne che traduce le nuances del personaggio diviso tra i sentimenti filiali e l’amore per la patria e per Hèlene che è interpretata in modo sublime dalla bellissima voce di Roberta Mantegna ormai padrona di ogni sfumatura e proiettata verso un grande futuro.
Il Coro del Teatro dell’Opera diretto da Roberto Gabbiani è ancora una volta un protagonista, anche nelle affollate scene d’insieme a cui i coristi partecipano senza lasciarsi distrarre dai numerosi ballerini e figuranti.
Applausi per tutti, ovazione per Daniele Gatti, qualche contestazione forse esagerata per le scelte di Valentina Carrasco.