Un'equilibrata commistione di musica, canzoni, ricordi e monologhi del protagonista, apparentemente modellati sulla falsariga del flusso di coscienza, ma in realtà ricchi di rimandi interni che indicano la presenza di un progetto globale ben articolato il quale, dietro la finzione dell'improvvisazione, rivela l'esistenza di un robusto canovaccio come nella miglior tradizione della Commedia dell'Arte: ecco in grande sintesi la lezione di teatro che vuole dare al suo pubblico uno scoppiettante Paolo Rossi, ben accompagnato nel suo percorso da Emanuele Dell'Aquila, Alex Orciani, Stefano Bembi che lo supportano dal punto di vista strumentale.
Proprio la necessità di un ritorno in epoca contemporanea alla Commedia dell'Arte, superando dunque l'ingombrante modello goldoniano, diviene la tesi di partenza di questo elogio descrittivo di quella che è, in buona sostanza, la vis comica e delle caratteristiche di vita di chi la possiede e la vuole trasmettere ad altri.
La difficoltà maggiore che oggi si riscontra nel fare satira è che non è possibile mettere in scena la parodia di una parodia, realizzando di conseguenza un'imitazione dell'imitazione (Platone docet), il che rappresenta un vero punto d'arresto per un futuro guitto del Duemila. Ed ecco che fra una digressione e l'altra, un colorito racconto di vita e l'altro sbucano le figure dei maestri, Jannacci, Fo, Andreasi, con cui Paolo Rossi instaura quasi un dialogo, a tratti velato di malinconia.
Lo spettacolo va in crescendo, complice qualche battuta un po' pesante, a tratti si fa esilarante e il pubblico, con cui il protagonista interagisce frequentemente, mostra di gradire e si diverte, totalmente partecipe e coinvolto. Paolo Rossi è bravo, domina la scena, mostra di avere il teatro nel sangue. Da buon provocatore risulta a tratti irriverente, prima di tutto con se stesso, scherzando continuamente sulla propria statura e sul proprio aspetto fisico, evidenziando in più punti un'arguzia fuori dal comune. Nessuna caduta dal palco dunque, e questo è l'essenziale.