Lirica
L'ITALIANA IN ALGERI

Ritorna il Rossini fiabesco di 'Lele' Luzzati

Ritorna il Rossini fiabesco di 'Lele' Luzzati

Ci sono allestimenti che non passano mai di moda, pur col passare degli anni; e uno di questi è L'italiana in Algeri proposta sul palcoscenico della Fenice di Venezia nell'ormai lontano marzo 1984 da Emanuele Luzzatti, con la regia di Roberto De Simone, la direzione di un giovanissimo Gelmetti ed un cast stellare (Horne, Ramey, Palacio). Il tono favolistico ed un po' onirico, tipico della produzione dell'artista genovese, e la piccante ironia delle trovate del maestro napoletano ne fecero un 'classico', sotto ogni punto di vista, che mediante un tocco di esotica magia rendeva al meglio il senso surreale di quella che Stendhal (il più illustre tra i fans rossiniani della prim'ora) definì acutamente “una follia organizzata e totale”. Fa molto piacere quindi ritrovarlo - seppure solo in quota parte - in questa coproduzione del capolavoro rossiniano messa in piedi da due Teatri Comunali, quello di Treviso e quello Ferrara, dove andrà in scena fra poco; e che per ora mette degnamente il sigillo alla stagione 2015/2016 del primo; operazione affidata a Giuseppe Emiliani per la regia, ed a Federico Cautero per il riallestimento visuale (con la consulenza di Marco Gadeas), e per le luci. Mentre scorrono le note della scintillante Sinfonia, si comincia già con la proiezione sul sipario del celebre cartone animato in “découpage” firmato a due mani da Giulio Gianini e 'Lele' Luzzatti nel 1968, che riassume la vicenda di Isabella e Lindoro seguendo impeccabilmente quella musica; è un vero peccato tuttavia che, sul rosso del serico tessuto, se ne perdano tutti i particolari cromatici. Si prosegue poi con quelle deliziose, mutevoli proiezioni su quinte e fondali candidi, che in un batter d'occhio mutano l'aspetto della scene – con tendaggi, loggiati, trasparenti séparées, vetrate - lasciandoci immersi in quelle delicate atmosfere fiabesche che i disegni di Luzzatti sanno evocare con pochi, abili tocchi. Dispiace però che i suoi coloratissimi e spiritosi costumi siano stati sostituiti ora da quelli di Stefano Nicolao, banali e troppo carichi di orpelli. Quanto alla regia di Emiliani, mi pare funzioni molto bene, senza sbandamenti: il regista veneziano ha capito che, una volta messo in moto e sulla giusta strada, il meccanismo rossiniano viaggia bene anche senza spinte (cioè trovate inutili), e sa come pervenire felicemente, da solo, al traguardo.
Sul podio Francesco Omassini, che pare cercare per la sfavillante partitura rossiniana una dimensione quasi cameristica; atteggiamento ravvisabile non solo nella leggerezza generale, ma anche nel lavoro di cesellatura timbrica, nelle nitidezza d'articolazione, nella ricerca di trasparenze, nel modo con cui varia le dinamiche e calibra le scelte ritmiche.  Un disegno complessivo accurato e minuto nei particolari, insomma, ma esuberante e vitalissimo nell'insieme; e vien da chiedersi cosa avrebbe potuto ottenere se avesse avuto a disposizione una compagine più presente dell'Orchestra Città di Ferrara. E magari anche un coro anche appena migliore dell'Iris Ensamble, inqualificabile quanto a coesione ed intonazione.
La compagnia adunata per queste recite trevigiane era ben centrata nei suoi componenti, già dalla protagonista principale, la moscovita Alisa Kolosova: mezzosoprano che, oltre a rendere il giusto carattere di Isabella (volitiva, civettuola, con una dolcezza che sa essere un po' ruffiana, mai però grossolana), si dimostra padrona del suo strumento e lo amministra giudiziosamente. Le fiorettature non sono così liquide come si vorrebbe, ma il resto può andare: bello e ben brunito il timbro, fluida l'emissione, la linea vocale scorrevole, compatta, scintillante, ed omogenea in ogni registro. Alle prese dello sfaccettato personaggio di Mustafà, che dall'iniziale virile protervia precipita poi nel ridicolo, Nicola Ulivieri mette in campo tutte le sue doti: saldissima presenza sulla scena, ed il pieno dominio di una voce possente, ben timbrata e ricca di armonici, fraseggiare intelligente e vario, massima varietà espressiva nei recitativi. Anche l'altro basso buffo, il pavido Taddeo, trova ideale incarnazione in Lorenzo Regazzo, musicalissimo nella linea di canto morbida e poderosa al tempo stesso, nella mobilità del fraseggio, nell'articolazione delle frasi, nella pienezza d'ogni parola; e assolutamente travolgente nel tratteggiare, con beffarda ironia, l'indole del vanitoso e petulante – ma tuttavia simpatico – spasimante deluso. Il giovane tenore argentino Francisco Brito sta maturando bene, come ci pare di sentire nelle sue ultime prove, e si conferma con questo suo Lindoro una delle voci rossiniane (e non solo, ovviamente) più interessanti e promettenti dei giorni nostri:  luminosa e limpida nel suono, variata nel colore, ben controllata e scorrevole nelle escursioni, con una colonna di fiato ben poggiata. Le molte agilità, affrontate con spavalderia e risolte a dovere; la presenza scenica, in ogni momento persuasiva.
Piacevolissimo l'Haly di Giulio Mastrotaro; corrette l'Elvira di Daniella Cappiello e la Zulma di Valeria Girardello. Spiace però dover constatare che, a fronte della proposta di uno spettacolo così ben riuscito, il pubblico trevigiano non abbia risposto con maggior trasporto: come già alla 'prima', non pochi posti del Comunale, infatti, erano ahimé desolatamente liberi.

(foto Studio Piccini)

 

Visto il 29-01-2016
al Comunale Mario del Monaco di Treviso (TV)